Cosa c’entra lo scoop che dimostra la persecuzione giudiziaria del leader politico più votato dagli italiani, con il trojan che inguaia quello che fu il magistrato più potente d’Italia? C’entra, c’entra
Toc toc: c’è un presidente della Repubblica? E una presidente della Corte costituzionale? Un Csm? Un organo apicale del circuito mediatico-giudiziario di difesa struggente e fuggitiva della democrazia? Per dire, c’è ancora il debenedettiano “libertà e giustizia”, il popolo viola, le vedove bianche, i fax Zagrebelsky, Bella ciao?
Sul gagliardo Riformista, Pietro Sansonetti ha concluso la sua clamorosa anticipazione-scoop intorno alla «sentenza sbagliata e (forse) pilotata» per frode fiscale che ha condannato alla galera Silvio Berlusconi, poi ai servizi sociali, cancellando dal Parlamento il leader politico più votato dagli italiani (politiche 2008) in tutte le elezioni dal Dopoguerra in avanti, dicendo di provare «dolore e paura».
Onore a un vecchio comunista. Che «mai ho votato e mai voterò centrodestra». Ma che riconosce – è il primo a batterne la notizia – un golpe giudiziario che ha confiscato la democrazia in Italia e ha stravolto la storia attraverso il furto violento del supremo diritto dei cittadini: quello di scegliersi partiti e uomini di governo.
Non ci sono altre parole per coloro che a vario titolo si sono appassionati a distruggere la libera competizione delle idee e lo Stato di diritto in Italia: élite di satrapi e tiranni. Ci sarebbe sul serio da salire su in montagna e cantare Bella ciao in compagnia di un comitato di liberazione nazionale. Ma la chiamata alle armi è chiaro che non funziona. Il sistema totale sono loro. Sono il regime e l’opposizione. Sono la farsa della democrazia.
Da questo punto di vista non colpisce il silenzio dei giornali di sistema (ricorderemo soltanto che nel processo più veloce della storia repubblicana è stato affidato a un giornalista del Corriere della Sera il compito di fare calcoli sul pericolo prescrizione del processo per frode fiscale a Berlusconi in modo da attivare la Cassazione in regime “feriale”, completare la condanna dei tre gradi di giudizio e preparare così la cacciata dal Parlamento del leader di Forza Italia via legge Severino: un solo anno per il primo grado, l’appello e la Cassazione, mai successo in tutta la storia della giustizia in Italia!).
Una ferita enorme per il nostro paese. E si capisce, non rimarginabile, visto che con quella sentenza non hanno soltanto organizzato l’omicidio politico di Berlusconi. Hanno mandato all’inferno l’Italia in un decennio iniziato con la speculazione internazionale sui conti pubblici (la bomba spread che costrinse il governo Berlusconi alla resa per far posto via Giorgio Napolitano all’uomo di Merkelandia Mario Monti), conclusosi nei guai che vediamo oggi, appesantiti dall’emergenza Covid: dalla bomba migratoria a un governo Conte che non può fare altro che vivere come appendice questuante ai piedi dell’Unione Europea.
Insomma, non hanno solo distrutto un uomo politico – che, come vedete, si è per altro dimostrato di tempra indomita, tanto da essere ancora lì, al centro della politica, senza rancori, al punto che per paradosso egli è oggi il più europeista dei leader italiani –, hanno distrutto la fiducia degli italiani e reso il popolo livida massa di manovra.
Grazie a Dio c’è una verità e una giustizia che il tempo miracolosamente rivela. Come si vede nell’altro clamoroso caso che incrocia le rivelazioni su Berlusconi e colma di provvidenza e contraddizione impreviste un sistema (tutto incentrato su Roma) chiuso a testuggine e in una fase di straordinaria decadenza “alla maniera” ex sovietica.
I giovani non sanno. Ma tipico dell’Unione Sovietica, e in generale dei regimi comunisti, era una informazione che si occupava degli affari altrui mentre all’interno tutto naturalmente filava liscio (essendo il “popolo al governo”). Così, come negli anni del secolo scorso l’informazione di quei regimi si concentrava sulle notizie di cronaca nera nei paesi capitalisti, oggi le prime notizie sui grandi giornali italiani sono per denunciare il razzismo in America piuttosto che Duda in Polonia, Orbán in Ungheria e Bolsonaro in Brasile. Della sentenza che ha cambiato la storia in Italia, ieri abbiamo udito solo urla dal silenzio (tanto per dirla col troppo divinizzato Tiziano Terzani quando lui stesso ammise e vergognandosi chiese perdono di aver scritto balle sull’Unità, descrivendo come patrioti le bestie Khmer Rossi, responsabili dell’annientamento di 2 milioni di cambogiani).
Ma ecco che, fortunatamente, le 60 mila pagine di intercettazioni del magistrato che per molti anni fu il funzionario dello Stato più potente, adulato, corteggiato e temuto della sua propria categoria (adulato e temuto dai componenti l’ordine giudiziario perché da capo sindacale e membro Csm non si sa quante migliaia di poltrone, incarichi, raccomandazioni Palamara ha distribuito alla corporazione giudiziaria) sono lì a ricordare che lungi dall’essere l’esercito della salvezza, la magistratura – almeno nella sua parte apicale, sindacalizzata è politicizzata – è responsabile del sistema che ha condizionato quando non manomesso (caso Berlusconi) lo Stato di diritto in Italia.
Come pensa di difendersi dal diavolo che fa le pentole ma non i coperchi il sistema di piccoli satrapi e tiranni che incatenano l’Italia lo abbiamo capito subito. Pensa di difendersi facendo “passà ’a nuttata” sullo scoop del Riformista che diventerà il sale della sentenza di riabilitazione di Silvio Berlusconi in Corte europea dei diritti umani. E, in attesa che il potere giornalistico colluso archivi Palamara nel dimenticatoio come “mela marcia”, approntando il plotone di esecuzione per il Palamara medesimo. E questo nello stile del più corretto e antico dei sistemi tirannici europei di una volta, quello comunista, che prima utilizza la giustizia a scopo di liquidazione degli avversari politici, poi giustizia anche i propri “commissari” e giudici allorché fuoriescano dalla linea o diventino troppo ingombranti per il potere che attraggono nella propria orbita.
È il caso di Luca Palamara, che come abbiamo visto e scritto, era diventato l’uomo di sistema (antiberlusconiano) più potente. Ma che a un certo punto ha commesso l’errore di non accettare più il condizionamento e il “consiglio” delle guardie rosse collegate via circuito mediatico-giudiziario al complesso di poteri organici dello “Stato profondo” romano.
Ora, dopo averlo cacciato senza neppure il diritto di difendersi dall’associazione che Luca Palamara presiedette con grande lustro, trasformandola in un interlocutore principe del governo dopo che per anni era sembrata un vecchio arnese postcomunista, i mandarini del Csm collegati ai poterazzi che contano, si apprestano a spogliare Palamara della toga di magistrato. Come dicevano le buone anime delle Br? Colpirne uno per educarne 100.
No. Non sarà proprio così brutale l’operazione, ma il risultato finale sarà per fare capire quello: guai ed espulsione dalla corporazione a chiunque si renda attivamente indipendente (invece che passivamente, i due terzi dei magistrati sanno benissimo come stanno le cose ma stanno zitti) da un sistema che si regge sul potere e sulla manomissione dello Stato di diritto. E state bene attenti al metodo usato per liquidare la presunta “mela marcia” e in realtà asse portante del sistema sindacalizzato e politicizzato interno alle toghe (finché le intercettazioni non lo hanno rivelato al pubblico e quindi diventando un “problema” per il potere di cui Palamara era espressione viva ed efficacissima).
Con la motivazione di una accusa che lo giustificava, la corruzione, accusa infine risultata insussistente già a conclusione delle indagini della procura (ma intanto il dispositivo spia aveva fatto il lavoro), la procura di Perugia ha inoculato nello smartphone di Palamara il famoso trojan che piace tanto al ministro Bonafede (per altro siccome il trojan ha bisogno di una attivazione che l’utente sospettoso non aveva fatto, la procura perugina ha chiesto e ottenuto la collaborazione dell’operatore telefonico, in questo caso Vodafone). E con ciò gli inquirenti hanno monitorato e depositato agli atti dell’inchiesta la vita di un anno, o forse più, attimo dopo attimo, dialoghi, sms, Whatsapp. Insomma tutto. Anche perché il dispositivo non cessa di fare il suo mestiere anche a cellulare spento.
E dire che anni addietro un amico magistrato si diceva già preoccupato delle cosiddette “cimici”. Era una persona seria, consapevole del potere devastante delle “intercettazioni ambientali” e percio, mi diceva, «ci vado con i piedi di piombo: quando sono proprio indispensabili, non le autorizzo senza valutare l’impatto su altre persone e ambienti che possono entrare nella rete di una pervasività pazzesca, da regime del Grande Fratello».
Immaginate adesso cos’è un dispositivo che ha tracciato 60 mila file di conversazioni e fino alle virgole. Un po’ si capisce. Quanto meno, se non ci sarà una svolta, ci faranno compagnia sui giornali – con commenti sui servizietti e marchette sessuali comprese – ancora per molti mesi. Ma se volete approfondire e prepararvi al dolce domani pensate a questo: pensate a che bel futuro radioso andremo incontro in Italia con uno strumento che anche a prescindere dalla razza padrona attuale, fornisce a chi che lo utilizzerà ben più che uno strumento di indagine.
Un esempio? Ecco, passa la legge contro l’omofobia e poniamo arrivano i primi inquisiti, magari sacerdoti o professionisti alla Gandolfini. Ora, siccome il reato ha una certa gravità, queste potranno essere inoculate e monitorate col trojan. Dopo di che, ecco un modo per annientare i futuri avversari, politici e non. Dico legge antiomofobia, ma è chiaro che qualsiasi ipotesi di reato può diventare (e con il caso Palamara rischia già di essere diventata) lo strumento di controllo e repressione dei non allineati al sistema da parte di una casta di tiranni del sistema.
La prova di quanto sto affermando? Scusate, quale sentenza di tribunale ha condannato Luca Palamara? Nessuna. Non c’è in corso nessun processo. E anzi l’ipotesi di reato che aveva giustificato le intercettazioni è decaduta. Dunque le intercettazioni non dovrebbero essere neanche utilizzabili (invece sì, perché Bonafede ha appena voluto una legge per cui le intercettazioni potranno essere utilizzate anche per indagini diverse dal reato per le quali erano state originariamente autorizzate). Ma comunque nel caso Palamara non dovrebbero essere utilizzabili perché l’accusa di corruzione è caduta. E col senno di poi dovremmo riconoscere che sono state intercettazioni imprudenti e illegali. Questo si dovrebbe concludere. Con tante scuse a Palamara che intanto è stato sputtanato agli occhi del mondo e, in primis, dei figli e della famiglia. Scagli la prima pietra chi è senza peccato. Il trojan è fatto per l’esatto contrario: è fatto per organizzare la lapidazione e la morte civile di qualsivoglia indagato. Innocente o colpevole egli sia.
Ma per ritornare al punto: dunque Palamara non ha ancora un processo, l’accusa di corruzione è caduta, però ci sono le intercettazioni. E sulla base di queste – e per la sola ragione che esse svelano qual è la sostanza vera delle relazioni e degli “ideali” che nutrono un certo giro di magistrati divenuti i personaggi più potenti d’Italia, che possono decretare la vita o la morte di qualunque cittadino – si imbastisce il rogo della toga di Luca Palamara. Scusate, ma in quale Stato di diritto si espelle da un ordine professionale, tanto più statale, condannandolo alla morte civile, una persona senza passare da un’aula di tribunale? (Per altro: sapete voi di qualunque impiegato statale licenziabile anche dopo una condanna in tribunale?). Questa era la Mosca degli anni 36 del secolo scorso.
È vero che i Palamara sovietici poi venivano pure fucilati. Ma è anche vero che sono passati tanti anni dal ’36 e tanta acqua sotto i ponti dalla Mosca comunista. Perciò, se il presidente del Consiglio superiore della magistratura e capo dello Stato Sergio Mattarella consentirà questa ennesima manomissione della democrazia, questa vera e propria farsa da Stato totalitario, invece di prendere la doppia occasione provvidenziale (il furto di vita politica, Berlusconi, il regolamento dei conti con colui che fino allo scorso anno era il regista del potere giudiziario) per esigere una riforma che il mitizzato ma ad oggi rimasto inascoltato Giovanni Falcone richiedeva già alla fine degli anni Ottanta, non ci si dovrà poi scandalizzare dell’imbarbarimento della società italiana. Con tutti i rischi possibili e immaginabili connessi alla tracotanza di un potere autoreferenziale che si crede imbattibile e irriformabile.
Luigi Amicone (Tempi)
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