Non c’è più la jihad di una volta

Esteri RomaPost

I volti olivastri, chiari ed anche molto scuri, sempre circondati da capelli corvini tra il riccio ed il crespo, passano come unica immagine anonima. Vendono kebab, fanno altri mestieri di fatica. A gruppi di soli maschi destano sospettosa inquietudine. Non hanno nomi se non mentre li citano fastidiosamente fra di loro a voce alta gutturale. Talvolta scorrono tramite i media senza che volto e nome trovino corrispondenza stabile. Allora viene citato un Mohammed Louenn cui non sono state sufficienti le condanne per entrata illegale, oltraggio a pubblico ufficiale, furto, falsa attestazione d’identità, permanenza illegale, guida in stato di ebbrezza, non rispetto del foglio di via, spaccio, porto abusivo di armi, evasione per far ricordare i dati anagrafici marocchini. Ci sono voluti i figli minorenni stupratori. Una volta noto, è stato estradato. Il che fa capire perché il gran anonimato arabo conviene.

Eppure nella provincia italiana i cognomi più diffusi sono ormai Singh, Kaur, Ahmed, Mohammad, Ali e Muhammad. Tanto presenti nelle anagrafi quanto invisibili nella vita. Accanto al mito della massa di islamici poveri e pericolosi esiste poi  la leggenda del ricco emiro delle mille ed una notte. Dall’inizio del secolo centomila ricchi uomini d’affari turchi, libanesi, arabi, siriani, giordani, nordafricani sono divenuti cittadini o residenti di un paese europeo, entrando in area Schengen, semplicemente comprandosene il passaporto, per importi variabili fra le decine e le centinaia di migliaia di euro. Anche i nomi dei ricchi Bin Talal, Addelouahed ed Al Thani, e di altri 3500 simili, malgrado la potenza economica o il titolo di Sceicco, restano anonimi ed indifferentemente sconosciuti nel contesto occidentale, a parte gli esperti di settore. Conosciamo soubrette, giornalisti, politici, imprenditori di tutto il mondo, i cui nomi risuonano nelle chiacchiere di tutti i giorni, ma chi ha sentito parlare del più famoso intellettuale del mondo arabo, il siriano Adonis, alias Ahmad Sai’id Esber. Nessuno dà un nome significativo e personale ad un arabo, nessuno ne studia l’intelligenza ed il pensiero se non come modello del male assoluto, del criminale, del maschilista, del politico corrotto, del ricco incapace. Proprio come lo ha descritto nel suo Violenza e Islam Adonis, L’Isis è il prolungamento e la fine dell’Islam. Oggi, sul piano intellettuale, l’Islam non ha niente da dire.

Invece nel 2016 appare un’opera occidentale, Jihad Il Piano Segreto, prima parte di una quadrilogia (con i successivi L’esodo e La pace, parte prima e Atto finale), che dà voce agli arabi. Sono loro, i loro pensieri, le loro voci ad essere protagonisti di una vicenda fantastorica e distopica di vittoria della mezzaluna dal medioriente all’Europa.  Inizia con uno sforzo di autopublishing e poi trova dignità editoriale in Francia dove Le Plan Secret esce per i tomi della Editions Laborintus di Furgiuele e Vergari. A cascata in Italia l’ultimo volume sarà edito da Art&Publishing. L’ambiente francese ed il mondo francofono sono i più propizi per la tematica araba, che ha peso filosofico, morale, politico e visualmente materiale per la grandissima presenza tra la popolazione transalpina, come dimostrano diversi volumi dello stesso periodo dal Soumission di Houllebecq, uscito appena prima della strage al Charlie Hebdo del 2015, ai libri di Kepel (Les banlieues de l’islam, Jihad, Sortir du chaos, Terreur dans l’Hexagone) a Il pericolo delle idee di Morin e Ramadan, Come il velo è diventato musulmano dell’ungaro marocchino Nassim, docente alla Sorbona, che ci ricorda l’origine grecoromana e paolincristiana del velo, ereditato passivamente dall’Islam come fossile vivente di culture antiche; infine agli antitetici Détruire le fascisme islamique di Zineb ed Islamophobie:Intoxication idéologique di D’Iribarne.

Tranne che nel dibattito filosofico a due, si tratta di volumi dove l’arabo è l’altro. Cosi si può dire anche per gli inglesi ISIS: Inside the Army of Terror di Weiss e Hassan, Mezzanotte a Istanbul di King, Perché ci odiano della Eltahawy. Ed ugualmente i nostriQuale Islam? e Il Corano e la sua interpretazione di Campanini, ISIS. Lo Stato del terrore della Napoleoni, Islam. Siamo in guerra di Allam fino al mitico La rabbia e l’orgoglio della Fallaci. Bisogna molto andare dietro nel tempo, più di mezzo secolo, per trovare un nostro testo letterario in cui l’arabo sia lingua protagonista e foriera di rimembranze sul dominio musulmano. Non a caso è un testo siciliano (Il Consiglio d’Egitto di Sciascia), proprio come lo è Il piano segreto, scritto su un vecchio Macintosh Classic, nelle campagne ragusane, nell’attribuzione  a tale  Arthur Mc Loud, una sorta di LeCarrè, classe ’27, di Coventry, ex contabile dell’Home Office in giacca di tweed; ed effettivamente opera di Claudio Melchiorre, romano naturalizzatosi catanese.

C’è del coraggio, e ce n’era ancor di più un lustro fa, quando la minaccia dell’Isis non si era fatta ancora pulviscolare ed evanescente, ridotta ai singoli muniti di bomba, pistola, financo di camioncini e coltelli da cucina, anche solo a non criminalizzare gli epigoni dell’Isis iraqsiriano. Nel Piano parlano ed agiscono proprio loro. A cominciare dalla famiglia siriana Dabbous di Aleppo (cognome anche della giornalista italosiriana rapita dalla cellula filoAl-Qaeda di Al-Nusra durante le rivolte del 2011, quando nella città venivano distrutte le chiese maronite): L’ortopedico Rashid, la moglie Zeynab, due fratelli più grandi delle due sorelle, tra i 18 ed i 25 anni, vivono bene, da benestanti, sotto Bashar al Assad in una Siria nervosa, quasi a sua insaputa, avviata al disastro. Poi Rashid viene preso per un oppositore dalla polizia segreta Mukhabharat che lo tortura mentre Zeynab muore investita in un sospetto incidente stradale, stile russosovietico, appreso  dai più fedeli alleati mediorientali di Mosca. Il paese però è in via di frantumazione; servizi di vari paesi, pezzi di esercito in rivolta, truppe venute da chissà dove, numerose quanto male addestrate disegnano l’iraqirazzione della Siria senza neanche una vera invasione. I media occidentali festeggiano una rivoluzione popolare, un po’ praghese, un po’ francese, innalzatasi dalla primavera araba made in Internet, messaggini e cellulari, proprio come sperata dai centri Kennedy fino al crollo della Clinton. Nel Piano non c’è l’Esercito libero ribelle ma sono le milizie nere dell’Isis a liberare i Rashid. Il padre, come faranno milioni di siriani, organizza l’esilio per la famiglia, prima a Il Cairo, poi, in progetto, in una prestigiosa clinica di Oslo. Gli aleppiani si chiedono Bet min? (qual è la tua famiglia?) ma la famiglia è alla fine. Le figlie lo seguono, i figli maggiori no e vanno ad arruolarsi nella Jihad. Dei due, uno abituato ad uno stile di vita occidentale si scontra contro le dure regole di guerra islamiche; l’altro, Abdul Al Dahia, invece supera le prove, acquisendo un cinismo, indifferente alla tortura perpetrata anche contro il suo sangue, che spaventa. Con meditata vendetta otterrà soddisfazione sopra i suoi nemici, con tanto di lapidazione di una donna arrogante. L’ex studente di medicina che dispone fondamentalmente di jeep e furgoni con mitragliatrici piano piano raggiunge gli obiettivi di conquista del califfo Abu Musa Al Baghdadi finchè questo con una certa gelosia lo invia all’impossibile, l’attacco all’Europa. Amabydusa, Siqilya, Italya sono i primi luoghi dell’invasione, facilitata dalla massa di profughi immigrati presenti in forze e dall’aiuto della mafia di Don Masino, storicamente arrendevole, se non di più, a tutte le invasioni.

Poi la trilogia scorre veloce. Nella seconda parte, ’17, Jihad l’esodo, Abdul, questo carismatico napoleone arabo, entra in Awrubba, l’Europa da salvare. La campagna per la conquista di Faransa riserva solo il problema della lite per la successione al potere dei comandanti vittoriosi. L’assenza di Abdul, fatto prigioniero e torturato, fa temere per il peggio. Nella terza parte, ’18, Jihad la Pace, il Maresciallo di Awrubba torna dal coma e scopre che l’invasione di Almania non è ancora avvenuta. Azioni spettacolari, sprezzo per il pericolo, abiezioni, punizioni di traditori veri e presunti, tormenti morali e indifferenze seguono l’organizzazione delle nuove avanzate che infine porta alla base Nato di Ramstein, Abdul e la moglie siciliana, Aysha, perdonata  dalle accuse di tradimento perché ferita gravemente. Si va alla conquista del resto d’Italya, di Suez e Gibilterra anche con un attacco nucleare.  Le continue vittorie si sommano ai segni mistici che sovrastano Abdul, capo militare orbo, come Roma sotto attacco, il freddo estivo, l’alba ad occidente, la croce accesa da Jesus, comandante dei Nuevos Tercios de Espana, la lotta tra fazioni islamiche. Elementi che fanno riconoscere nel giovane, il Mahdi, come appare alla suora Maria, tramite con il Papa Francesco II, che da subito inventa le chiese moschee. Il super-eroe dell’Islam. L’ultima puntata  di Jihad Il piano segreto è la versione cinematografica che sta producendo e dirigendo nella provincia catanese, il regista Giuffrida. Fabio Boga sarà Abdul della Federazione delle Repubbliche Islamiche di Awrubba, in una prima puntata pilota di mezzora, di un serial in tre lingue, per la sceneggiatura di Melchiorre e della Bassotti.

Trasportata in video, la quadrilogia si prepara pepata, basti solo pensare all’esposizione di maschilismo, oggi peccato supremo. Il difficile punto del rapporto con le donne viene superato bellamente in modo gordiano. Fatte prigioniere, le femmine non sono soggette a violenza perché sono loro a farsi apprezzare dall’uomo assegnato sia come riposo del guerriero che come guerriere; pena l’isolamento, la pena peggiore. Abdul in Siqilya si trova nei guai con la compagna, quando questa, forte della famiglia vicina, si riscopre, se non occidentale, siciliana; e gli tiene testa. Il supremo capo è imbelle dialetticamente e non sa che pesci prendere. Non gli resterà che, con urla e determinazione, appellarsi all’ubbidienza voluta da Allah per piegare Aysha. Vero infatti che può essere condiviso il rifiuto per la vuota ed ipocrita demagogia di concetti come tolleranza, uguaglianza e diritti umani; dalla sua però Abdul ha solo la pretesa di ubbidienza alla sua religione, concetto alfine altrettanto, se basato solo sulla forza, demagogico, vuoto ed ipocrita.

Il racconto di una nuova invasione maomettana, dopo mille anni e qualche secolo, può divertire, spaventare, inorridire e far ridere. Sull’altra sponda delle nostre coste la guerra è spesso uno stato di fatto permanente, per di più  a basso tasso tecnologico, un tipo di situazione che gran parte del mondo arabo sembra prediligere, spaventato dall’ordinarietà dello sviluppo, che appare miraggio irraggiungibile a molti paesi della mezzaluna. In Europa l’idea di guerra fa inorridire; ed infatti lo scontro della Jihad del Piano è poca cosa, perché gli europei si arrendono. Realistico il ritratto dell’Occidente arrendevole, debole e presuntuoso, sempre in crisi d’identità. Credibile il messaggio, l’Italia ha perso il controllo della Sicilia .. L’assalto.. è stato condotto da un’avanguardia dello Stato islamico finanziata … da un fondo sovrano con sede in Libano.; realistica la presenza come quarta colonna di milioni di persone pronte a sollevarsi fidando in un comandante accorto (con buona pace della sperata integrazione); acuto l’intreccio degli effetti delle antiche ed attuali politiche coloniali, dei business dei traffici di uomini, droga, armi, che hanno sempre reso lo stato di guerra permanente mediorientale qualcosa di viscido, imprevedibile, immerso nell’ eterogenesi dei fini; cosa particolarmente compresa e immedesimata da quel medioriente europeo che è la nostra Magna Grecia; realistica la descrizione dei personaggi, pratici e umani, che sembrano vivere alla giornata per sé e che si trasformano in macchine di violenza percorsa da una meccanica obbedienza fatta di fede e di paura; non troppo dissimili dagli uomini di mafia e n’drangheta; comprensibili le reazioni violente, integraliste,  terroristiche di fronte alle angherie straniere e di dirigenze corrotte ed approfittatrici. Resta il sospetto che queste reazioni siano una scorciatoia semplice che rifugge le complessità. Ci sono monologhi, discorsi e lunghi ragionamenti urlati in testa, ma alla fine quello che conta è solo la bravura in battaglia, la vittoria in guerra, la forza personale, detta fede, del boss che si impone. Gustosissimo l’incontro in Siqilya tra due mentalità mafiose che si vogliono imbrogliare a vicenda. Una di queste si è fatta troppo commercialista però; ha dimenticato i padri e si assoggetterà.

Il sequestro di continente è però un wishful thinking, facile ossessione per un popolo che perde tutte le guerre da più di mille anni. E’ un paradosso impossibile come hanno dimostrato i russi in pochi mesi di intervento siriano. La storia, avvincente, appassionante, reale, brutale, che si brucia nella fretta di lettura, mantiene cosi l’implausibilità di fondo. Quando l’autore pensò alla trama, vide molte cose immaginate concretizzarsi; doveva però pubblicare quattro anni prima, quando i cincischiamenti americani avevano permesso la nascita del regno transfrontaliero del Daesh. Oggi il wishful thinking sembra i consigli truffaldini di Lawrence d’Arabia; nelle sue vesti, Art Mc Cloud ci avverte dei pregiudizi, dei giudizi sommari e dopo una cronaca da vicino, ce li conferma tutti come reali. La denuncia finale finisce per essere contro la politica buonista di accoglienza. Sembra avvisare della necessità di una guerra preventiva di cacciata a mare. Politicamente difficilissima, militarmente, una passeggiata. Per ora.

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