Può sembrare assurdo evocare oggi l’interesse nazionale quando abbiamo un presidente del Consiglio che a Bruxelles chiede soldi e invoca “pietà” agli olandesi in nome dei “morti di Covid” (come se lo fossero stati sui campi di battaglia) oppure quando il più inetto ministro dell’Interno della storia unitaria (non era facile battere Alfano) fugge di fronte a immigrati tunisini con barboncino. Aveva forse ragione il giurista Salvatore Satta, uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento, quando tra il 1944 e il 1945 in De profundis lamentò la “morte della patria”?
Però poi, nella prima repubblica, De Gasperi, Fanfani, Andreotti, Cossiga, Craxi, l’interesse nazionale l’hanno difeso. Anche per quello Tangentopoli fu organizzata, per distruggere una classe politica che sapeva tutelare l’Italia, e far posto a una nuova politica tecnocratica da un lato e post comunista dall’altro, che il senso della nazione non l’avevano mai coltivato, e che videro nell’adesione alla Ue un modo per sbarazzarsi finalmente della nostra nazione. Chi si oppose a questo progetto, Silvio Berlusconi, fu perseguitato in tutti i modi. E alla fine fu sconfitto.
Eppure di interesse nazionale bisogna parlare perché senza nazioni noi non esistiamo, essendo la nazione lo spazio in cui le persone possono agire in comunità. E, come ha scritto il politologo Stephen Walt di recente su “Foreign Policy”, non certo un organo nazionalista, il XXI secolo sarà più che mai quello delle nazioni. Perciò bisogna assolutamente leggere il voluminoso rapporto sull’interesse nazionale prodotto dalla Fondazione Fare Futuro (Italia 20.20. Rapporto sull’interesse nazionale, Roma, Fondazione Fare futuro, 25 euro). Perché il primo concreto e realistico pericolo è quello che sparisca non solo la nazione ma con lei anche gli italiani, come scrive nella sua introduzione il senatore Adolfo Urso. E crisi demografica da un lato e progetti di grand replacement con gli immigrati dall’altro (come esplicitamente teorizzato da un partito come più Europa favorevole alla sostituzione etnica) ci dicono questa ipotesi tutt’altro che peregrina. Dal presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo all’ex ministro e ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, dal direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, agli storici Giuseppe Parlato ed Ernesto Galli della Loggia, dal giurista Alessandro Mangia al generale Carlo Jean fino a Guido Crosetto, ognuno affronta, dal punto di vista delle proprie competenze e esperienze questo tema; come salvare l’Italia?
Senza nulla togliere ai numerosi autori mi soffermo solo su gli interventi di due Giuli, Sapelli e Tremonti, Il primo punta l’attenzione sulle ragioni del declino economico, di quella che negli anni Ottanta era la terza economia europea. Secondo Sapelli, l’Italia è crollata da un lato perché, attraverso un golpe tecnocratico e giudiziario, le privatizzazioni hanno distrutto un sistema che, al di là degli eccessi, era virtuoso. E poi perché, a cominciare dal cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca Italia, nel 1981, è stato imposto all’Italia un’adesione alla integrazione europea che non poteva non comprometterla. Volendo istituire un ideale tribunale della storia, alla barra secondo noi dovrebbero andare Beniamino Andreatta, Tommaso Padoa Schioppa e Carlo Azeglio Ciampi, in ordine di responsabilità. Ma al di là dei singoli casi, è una fetta sempre più ampia di classe politica e dirigente che, a partire dagli anni Settanta, comincia a non sentirsi più come nazionale e di fatto ad agire consapevolmente o inconsapevolmente a favore di altri paesi, soprattutto la Germania (a parte i comunisti che lavoravano per l’Urss). Il grimaldello ideologico con cui giustificare la sottomissione del paese fu la metafora del “vincolo esterno”, teorizzata dal governatore della Banca d’Italia, Menichella ma poi diffusa da Guido Carli, un personaggio troppo spesso monumentalizzato ma la cui attività andrebbe valutata assai criticamente.
L’a-nazionalità, se non proprio l’anti italianità , di un pezzo di classe politica e dirigente è il tema affrontato dall’altro Giulio, Tremonti che scrive delle diverse chiamate del straniero in Italia, la più clamorosa quella del governo Monti grazie a un presidente (post?) comunista come Napolitano. Oggi solo uno sprovveduto potrebbe pensare che gli eredi di Berlinguer, mai sentitisi italiani, e quelli di Andreatta, possano essere interessati a tutelare l’interesse nazionale, al di là delle parole. Quanto ai grillini, meglio stendere un velo pietoso. Compito, quello della difesa della nazione, che spetta perciò di diritto alle forze sovraniste. Che siano in grado di farlo, è però questione tutta aperta e da costruire: ma anche la lettura di questo volume potrebbe contribuire in parte a riempirla.
Marco Gervasoni (blog Nicola Porro)
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