Tempi propone una scheda di lettura critica in vista del voto del 20 e 21 settembre a cura del Centro Studi Livatino
- Nella seduta dell’8 ottobre 2019 la Camera dei Deputati ha approvato in seconda deliberazione, e quindi in via definitiva quanto all’iter parlamentare, la proposta di legge costituzionale A.C. 1585-B, che prevede la riduzione del numero degli “onorevoli”, modificando gli art. 56 e 57 della Costituzione, dagli attuali 630 deputati a 400 e dagli attuali 315 senatori a 200.
La riforma include la modifica dell’art. 59 co. 2 Cost.: fermo restando che chi è stato Presidente della Repubblica diventa a vita e di diritto senatore (art. 59 co. 1), il numero di coloro che possono essere nominati senatori a vita “per altissimi meriti” viene fissato in cinque. Tale è il numero massimo di permanenza in carica di questa tipologia di senatori, e così la riforma risolve l’incertezza se i cinque senatori di nomina presidenziale costituiscano un “numero chiuso”, ovvero se ciascun Presidente della Repubblica possa nominarne fino a cinque. La p.d.l. costituzionale prevede anche l’applicazione delle nuove disposizioni «a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore» della riforma, «e comunque non prima che siano decorsi sessanta giorni dalla predetta data di entrata in vigore».
- Il 20 e il 21 settembre, insieme con le elezioni per il rinnovo di alcuni Consigli Regionali e di non pochi Comuni italiani, si svolgerà il referendum confermativo di tale p.d.l. cost.: si procede al referendum perché, in base all’art. 138 co. 2 e 3 Cost., la seconda votazione della p.d.l. non ha fatto riscontrare la maggioranza dei due terzi di entrambe le Camere (essa si è raggiunta solo a Montecitorio), e nei tre mesi dall’ultimo voto 71 senatori, pari a più di un quinto dei componenti di palazzo Madama, ha formalizzato la domanda di voto popolare. A differenza del referendum abrogativo, disciplinato dall’art. 75 Cost., per la validità di questo non è previsto alcun quorum, cioè la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto. Il solo requisito ai fini del completamento del percorso di modifica costituzionale è che il quesito referendario sia approvato dalla maggioranza dei voti validi, e questi ultimi in teoria possono essere anche pochissimi.
- Qualche ulteriore dettaglio. Premesso che la riduzione in termini percentuali derivante dall’approvazione della p.d.l. cost. è, per ciascuno dei due rami del Parlamento, del 36.5 per cento degli attuali componenti elettivi, cambia il numero medio di abitanti per ciascun parlamentare eletto: per la Camera dei deputati il rapporto aumenta da 96.006 a 151.210, mentre per ciascun senatore cresce da 188.424 a 302.420.
Va ricordato che il testo originario degli art. 56 e 57 Cost., approvati dall’Assemblea costituente, non contemplava un numero fisso di parlamentari: vi era un rapporto numerico costante tra abitanti e eletti, il che rendeva variabile il numero dei parlamentari col variare della popolazione. Il parametro era di un deputato ogni 80.000 abitanti o frazione superiore a 40.000 abitanti, e per ogni regione di un senatore ogni 200.000 abitanti o frazione superiore a 100.000 abitanti, con un minimo di sei senatori per regione, esclusa la Valle d’Aosta alla quale si attribuiva un unico seggio.
Con la revisione realizzata con la legge costituzionale n.2/1963, il numero dei parlamentari è stato determinato dalla Costituzione in modo fisso: i senatori elettivi sono esattamente la metà dei deputati, gli uni e gli altri a prescindere dalla variazione della popolazione. Nessuna regione ha meno di sette senatori a eccezione della Valle d’Aosta (uno) e del Molise (due). Nei decenni successivi più volte il Parlamento ha avviato l’iter per cambiare il numero dei parlamentari nell’ambito di progetti più ampi di revisione del bicameralismo, senza tuttavia che la revisione trovasse definitivo compimento.
- L’attuale p.d.l. cost. stabilisce il minimo di tre senatori per ogni Regione o Provincia autonoma (per la prima volta la Costituzione attribuisce un tale numero di seggi senatoriali alle Province di Trento e di Bolzano), ferma restando la previsione vigente circa la rappresentanza del Molise (2 senatori) e della Valle d’Aosta (1 senatore).
Il confronto fra i dati dei 27 paesi Ue fa emergere, da uno studio svolto dal Senato nel 2013, che la graduatoria del numero di parlamentari ogni 100.000 abitanti vede le prime tre posizioni occupate da Malta con 14,5 parlamentari, Lussemburgo (11,2) ed Estonia (7,6). L’Italia si trova al ventitreesimo posto su 27: ha attualmente, senza tener conto delle riduzioni della riforma, 1,6 parlamentari ogni 100.000 abitanti. Il rapporto parlamentari/popolazione è più ridotto solo per la Francia, ventiquattresima con 1,4, la Spagna e l’Olanda (con 1,3) e la Germania, “ultima” con meno di un parlamentare (0,9) ogni 100.000 abitanti. Se invece la graduatoria è in termini assoluti, l’Italia con 950 tra deputati e senatori è al primo posto, seguita da Francia, Germania e Spagna (e – causa Brexit – senza contare il Regno Unito, che altrimenti avrebbe il primato).
- La riforma risente non poco delle suggestioni relative ai “costi della politica” e del luogo comune sul numero elevato di parlamentari che per un verso “produrrebbero” poco e male, per altro verso assorbirebbero risorse pubbliche superiori alla “resa” effettiva. Nel sito del Dipartimento per le riforme istituzionali della Presidenza del Consiglio, la scheda di presentazione della p.d.l. cost. somiglia molto a una dichiarazione di voto, poiché sottolinea come duplice obiettivo della riforma «da un lato favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini e dall’altro ridurre il costo della politica (con un risparmio stimato di circa 500 milioni di euro in una Legislatura)»; in tal senso «la riforma consentirà all’Italia di allinearsi al resto d’Europa».
Sia consentita qualche sintetica osservazione:
- Se l’“allineamento” all’Europa significa minore quantità di parlamentari, si dovrebbe tenere conto non dei numeri assoluti, bensì del rapporto fra “onorevoli” e popolazione, che – come si è detto – vede l’Italia più che “allineata”.
- Andrebbe fornita una informazione puntuale sui risparmi effettivi conseguenti alla riforma: 500 milioni di euro in una legislatura equivalgono a 100 milioni di euro all’anno, non una gran cifra se si considerano le controindicazioni che seguono, e se si confronta tale importo anche solo con le decine di miliardi di euro di incremento dell’indebitamento dello Stato, deciso di recente per via dell’emergenza Covid-19.
- Le istituzioni hanno parametri di valutazione e dinamiche differenti da quelli aziendali. Per un’impresa economica il bilancio fra costi e ricavi è la regola, ma il buon governo delle istituzioni segue altre logiche. Qual è il parametro della “resa” o della giustificazione dei costi? La quantità di tempo che il parlamentare trascorre a Montecitorio o a Palazzo Madama? Il numero di leggi che concorre ad approvare ogni anno? Sono con evidenza domande retoriche. Volendo condurre il ragionamento sull’improprio terreno della “resa” economica, una singola legge può provocare danni economici ingenti, a prescindere dal numero di parlamentari che l’hanno esaminata e votata. Interessa piuttosto che l’istituzione cardine dell’ordinamento italiano sia posta nella condizione di ben funzionare, e a tal fine l’attenzione non può rivolgersi in via esclusiva alla quantità di deputati e di senatori.
- La crisi dell’istituzione parlamentare – non soltanto in Italia – più che dalla estensione della sua composizione dipende dalla progressiva sottrazione di competenze rispetto a quelle tradizionalmente riconosciute agli organismi rappresentativi nazionali. Ciò è avvenuto per volontaria cessione di sovranità verso l’alto, a fronte dei Trattati che hanno disciplinato l’Unione Europea e le sue articolazioni, o verso il basso, col conferimento di importanti materie in via prevalente alle Regioni, ovvero per aver subìto in modo sempre più significativo l’invadenza della giurisdizione. Su nessuna di tali voci oggi la politica pare interrogarsi: non per manifestare riserve aprioristiche verso la UE, nella cui costituzione è implicita una parziale cessione di sovranità, bensì per verificare se l’attuale configurazione della UE medesima corrisponde alle esigenze dei popoli che vivono al suo interno; non per negare la valorizzazione delle Regioni in una prospettiva di autentica sussidiarietà, bensì per domandarsi se è corretto che lo Stato demandi a livello locale compiti che dovrebbe assumere e svolgere pur quando è in gioco l’interesse nazionale, salvo poi – come è successo per l’emergenza Covid-19 – a rimpallarsi le rispettive responsabilità. Nè è ovviamente in discussione l’importanza dell’attività giudiziaria: bensì che negli ultimi decenni sia stata teorizzata e praticata l’“invenzione del diritto”, invece della sua puntuale applicazione, da parte del giudice. Con la conseguenza che il Parlamento, soprattutto – ma non soltanto – sulle questioni eticamente sensibili della vita e della famiglia, o trasforma in legge una sentenza a distanza di qualche anno, come è accaduto con la legge n. 219/2017 sulle c.d. disposizioni anticipate di trattamento rispetto alla pronuncia della Corte di Cassazione del 2007 sul caso di Eluana Englaro, o rinvia alla definizione giurisprudenziale l’assetto di istituti delicatissimi, come fa la legge sulle unioni civili rispetto alla c.d. stepchild adoption, o addirittura rinuncia a legiferare, una volta interpellato dalla Corte costituzionale nel 2018 a proposito del suicidio assistito.
- La crisi dell’istituzione parlamentare – e questo è un fenomeno precipuamente italiano – dipende anche dalla prassi seguita dai Governi degli ultimi anni di varare decreti legge lunghi e complessi, con centinaia di articoli, ciascuno composto da più commi: il loro esame è impossibile fra Camera e Senato (Commissioni e Aula), sì che, al fine di rispettare il termine di 60 giorni per la conversione in legge, la trattazione effettiva avviene nella Commissione di merito del primo dei rami del Parlamento di destinazione del DL, per passare in Aula all’approvazione con voto di fiducia (quindi senza reale confronto), con un trasferimento meramente formale all’altro ramo, dove il testo viene “blindato” per non rischiare la decadenza. Con questa dinamica, tanto perversa quanto consolidata, il numero dei parlamentari non c’entra: anzi, una quantità inferiore provocherà un esame di questa tipologia di provvedimenti ancor meno approfondita. La p.d.l. cost. oggetto del referendum si muove in coerenza con questa deriva dirigistica: un Parlamento con un terzo in meno degli attuali componenti sarà interpellato ancor di meno rispetto a oggi per non rallentare i tempi delle decisioni del Governo; in linea – da ultimo – con la prassi seguita durante la pandemia, che ha visto la moltiplicazione di organismi nominati dall’Esecutivo dotati di un potere di fatto decisionale (si pensi alle “indicazioni” del CTS-comitato tecnico scientifico), spesso più incisivo di quello delle Camere.
- Il numero di deputati e di senatori può pure tollerare una riduzione, a condizione però che sia compensata da una più puntuale ed effettiva assistenza tecnica. Già oggi è materialmente impossibile che ogni singolo parlamentare abbia contezza di tutti i provvedimenti che è chiamato a votare; talora ha difficoltà a padroneggiare anche soltanto quelli della Commissione di merito nella quale è inserito. La contrazione numerica farà sì che il lavoro medio di ciascuno cresca: Camera e Senato potranno reggere se aumenterà il numero e la qualificazione dei funzionari di ruolo – sia quelli assegnati alle Commissioni sia quelli assegnati all’Aula -, e se al tempo stesso il singolo parlamentare disporrà di risorse adeguate per l’ausilio di personale che non si limiti a un lavoro di stretta segreteria. Per essere più chiari: altre importanti istituzioni garantiscono a chi ne fa parte un contributo tecnico decisivo e irrinunciabile. Ogni giudice costituzionale conta su 2 o 3 assistenti molto qualificati; non meno di venti magistrati sono applicati al CSM a supporto dei 16 consiglieri togati e degli 8 “laici”. Pensare che per deputati e senatori sia sufficiente il contributo dell’ufficio legislativo del gruppo di apparenza, quando c’è, o del funzionario di Commissione o di Aula, significa rassegnarsi alla qualità delle norme con le quali da tempo si ha a che fare: il problema rischia di apparire insuperabile riducendo la quantità dei parlamentari, mentre l’individuazione di valido personale in ausilio probabilmente impone di impiegare denaro in misura superiore a quanto il taglio avrà fatto risparmiare.
- È assai probabile che la sollecitazione demagogica che è alla base di una riforma costituzionale così settoriale e rischiosa prevalga nel voto referendario rispetto alle riserve appena enunciate. È una delle ricadute di decenni di demonizzazione della politica, che è all’antitesi dello sforzo di affermare l’etica della politica: quest’ultima non è una generica rivendicazione di onestà personale, destinata a naufragare – in assenza di altro – alla prima esperienza di governo, locale o nazionale. È piuttosto tensione verso scelte di governo prudenti e verso leggi rispettose della persona e delle comunità nelle quali la persona vive e opera.
Quando la legittima critica delle opzioni della politica diventa rifiuto dell’autorità politica in quanto tale, l’effetto – come la storia e la cronaca più recente insegnano – non è l’elevazione del livello medio di probità dei personaggi politici, bensì, unitamente a una evidenza di inadeguatezza per i ruoli chiamati a esercitare, porre la politica, e le istituzioni nelle quali essa si svolge, nella crescente difficoltà di operare e di fornire risposte alle esigenze del presente. Se, alla stregua della propaganda diffusa, “la politica fa danno”, è inutile puntare alla selezione e alla formazione di chi dovrà impegnarsi in essa – è l’ottica del divieto di più mandati, interno a qualche formazione partitica -, e al tempo stesso è inutile garantire risorse adeguate alla funzionalità delle istituzioni, in primis del Parlamento: la riduzione del numero dei parlamentari va in questa direzione.
Ma come, per le ragioni appena esposte, il risparmio – se ci sarà – sarà risibile e probabilmente verrà cancellato dal necessario incremento del numero di funzionari parlamentari, così l’ossessione anti-politica prefigura incentivi a condotte politicamente scorrette. Un numero congruo di parlamentari circoscrive – pur se non scongiura – il rischio che ciascun singolo deputato o senatore acquisti un ruolo decisivo nel voto di fiducia al Governo e/o nel procedimento di formazione delle leggi. L’esperienza parlamentare italiana ha conosciuto più volte maggioranze – e relativi Esecutivi – appesi al filo di pochi voti di differenza in almeno uno dei due rami del Parlamento; la riduzione del numero di deputati e senatori conferisce agli eletti un maggior potere di condizionamento, se non di vero e proprio ricatto. L’effetto dello sbandierato sforzo di riduzione dei costi della politica potrebbe essere, per eterogenesi dei fini, una spinta, ulteriore rispetto a quanto già esistente, verso il trasformismo e verso la tutela di interessi particolari nelle leggi di spesa.
In spregio delle ottimistiche previsioni contenute nel sito della Presidenza del Consiglio, tutto ciò non costituirebbe propriamente un miglioramento dell’efficienza del sistema democratico.
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