“Ho guardato dove gli altri non hanno cercato”. Lo ha detto l’uomo che ha trovato, ieri, i poveri resti del piccolo Gioele.
E questa frase sembra l’epilogo perfetto per una vicenda che rimane piena di buio, di angoli ciechi, di luoghi, sentimenti, comportamenti dentro cui nessuno, evidentemente, “aveva guardato”. Sembrano una piccola violenza, oggi, tutte le ricostruzioni, le investigazioni, le curiosità, e l’ondata d’emozione che ha accompagnato questa lunga, assurda vicenda – dentro l’estate più assurda degli ultimi cinquant’anni – vortica e s’impenna, e il moltiplicarsi di indizi veri o presunti, di certificati che non si sa bene cosa certifichino, di testimonianze a posteriori, di video impietosi e imbarazzanti provoca un effetto paradossale: un desiderio di distogliere lo sguardo, di pudore per il dolore altrui, di ribellione per ogni obiettivo che inquadra, ancora e ancora, i frammenti di questa storia. È lo sguardo, ancora, il tema: quell’ansia, ora, di “guardare dove gli altri non avevano cercato”, alla ricerca di ogni minimo documento, dichiarazione, singhiozzo da dare in pasto al pubblico fremente. Eppure è evidente che, in questa storia dolorosa, proprio lo sguardo è quello che è mancato. Guardare là dove gli altri non cercavano: forse guardare dentro il malessere di Viviana, qualunque nome clinico potesse avere (e per la diagnosi del suo stato mentale sarebbe meglio aspettare di sapere cosa c’è scritto davvero nel certificato medico trovato nell’auto e sequestrato). A volte, dentro, si scava un buio che anche le persone più prossime e amate non riescono a capire, a vedere. A volte la sofferenza psicologica è un rebus tenuto nascosto, o che emerge con difficoltà nella consapevolezza delle famiglie.
A volte si resta di stucco, e si cercano all’indietro crisi mistiche, o piramidi o altri simboli che giustifichino il non avere visto, non avere guardato (quella che sembra svettare, lontana, su tutta questa vicenda, la piramide di Mauro Staccioli, “38° Parallelo”, a Motta d’Affermo, ultima di una serie di installazioni d’arte immaginate per “curare” la Sicilia, è un simbolo di rinascita e di sguardo che trafigge il cielo e l’orizzonte). Guardare è difficile. A volte ci vuole un falcetto, come quello del volontario, il brigadiere in congedo che, da solo, infilandosi “dove nessuno riusciva a passare”, ha trovato quello che nessuno avrebbe voluto trovare, ma che si doveva comunque cercare. Guardare è complicato: lo sanno bene i testimoni di quei gesti strani di Viviana, quel suo allontanarsi verso il bosco che sembrava senza senso. Ma – siamo sinceri – quanto ci è chiaro cosa fanno gli altri, mentre lo vediamo accadere? Quanto sono chiari i confini tra chiedere a qualcuno se ha bisogno di aiuto e restare immobilizzati da un “no, grazie”? Cosa vediamo, quando guardiamo? Guardare è penoso, è doloroso, e tutti i frammenti penosi e dolorosi della storia di Viviana e Gioele – se mai potremo davvero ricostruirla nella sua umana verità, al di là dei dettagli investigativi – ci esplodono intorno, coi dettagli più macabri o impietosi, e sì, questo sguardo ci sgomenta.Guardare dove nessuno aveva guardato: ritrovare il buio, la domanda che non avrà risposta, e il fratello silenzio.
- Manginobrioches Giornalista e blogger
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