Intervista ad un protagonista dell’accordo confederale sul telelavoro 2004, Roberto Di Francesco
Dunque, a Roma la Castellano (Cgil), Pizzi (Cisl) e Di Francesco (Uil) per conto dei rispettivi segretari confederali Rocchi, Furlan e Pirani, stesero e firmarono l’accordo confederale nazionale del 2004 sul telelavoro. All’epoca i segretari generali della triplice erano Epifani, Pezzotta ed Angeletti; le firme sull’accordo furono poi della Confindustria del partenopeo D’Amato e dei rappresentanti del terziario, delle Pmi, del commercio e dell’artigianato (Confesercenti, Confapi, Cna,), spostando qualche virgola da quello europeo del 2002 e rafforzando il concetto di uguaglianza tra telelavoratori e lavoratori presenti in ufficio ed in fabbrica, sotto tutti i punti di vista (dalle durate contrattuali, ai diritti sociali e sanitari, alle garanzie, alle sicurezze, anche di carriera).
Poi?
Sia telelavoro che le evoluzioni, rese possibili dalle tecnologie, del lavoro agile e dello smart working in Italia sono rimaste una modalità ristretta a pochi in poche aziende, ricorda Di Francesco. Prima della pandemia in Italia c’erano poco più di 500mila lavoratori agili. Dopo l’emergenza Covid, tra marzo e maggio, sì sono diffusi esponenzialmente, prima 8, poi stabilizzati a 6 milioni. L’avvio del lockdown ha già rivoluzionato il mondo del lavoro; ora è impossibile tornare indietro.
Per il telelavoro ci fu bisogno di un accordo sociale europeo; con lo smart working si va avanti a sondaggi e decreti ministeriali…?
C’è stata una emergenza epocale. È stata presa l’unica via possibile per continuare a lavorare; anche se non era scontato, visto che siamo agli ultimi posti in Europa per divario digitale, il sistema ha retto. Il metodo è stato però rude ed unilaterale. Praticamente il governo ha imposto unilateralmente lo smart working alle imprese e quindi ai lavoratori. D’altra parte, anche la legge del 2017 lo aveva messo nelle mani esclusive del datore che lo applicava con un rapporto diretto, cioè unilaterale, con i lavoratori.
Cosa deve essere cambiato?
Non il concetto di smart working; è largamente apprezzato da lavoratrici e lavoratori per tanti fattori, meno tempo perso nel traffico, riduzione di spese del trasporto, maggiore autonomia, possibilità di conciliare affetti e impegni lavorativi. Anche l’ambiente ci guadagna in termini di riduzione di inquinamento e di emissioni di gas serra. Una nostra recente ricerca (della Uil Lazio) evidenzia che 8 lavoratori laziali su 10 apprezzano l’esperienza del lavoro agile, anche se richiamano sfavorevolmente la perdita di socialità, la sovrapposizione di tempi di lavoro e di vita personale fino all’assenza di sconnessione. Anche le aziende hanno trovato i loro vantaggi, come dimezzamento delle spese di manutenzione, abbattimento dei canoni di affitto e dell’assenteismo. In qualche modo è arrivata una spinta innovativa che ha forzato l’animo italiano restio al cambiamento. Tutti, nei mesi bui della pandemia, ciascuno secondo le proprie competenze, hanno poi gettato il cuore oltre l’ostacolo, in uno sforzo di autoformazione e problem solving (che un tempo si chiamava cavarsela fra praticaccia e senso comune). Nella nostra storia le emergenze dettano i cambiamenti e le criticità determinano le soluzioni. L’Italia cade ma si rialza sempre. Tra qualche anno di questo periodo non ricorderemo l’epidemia, ma il cambiamento del modo di lavorare. Non percepire la realtà significherebbe non governare un processo ormai irreversibile.
Governare sotto quali punti di vista?
Per essere concreti, lo smart working impatta soprattutto sui segmenti del terziario e della pubblica amministrazione. Altre professioni richiedono presenza, azione, manualità. Qualcuno si fa forte di questa evidenza per considerare privilegiate alcune fasce di lavoratori. La soluzione evidente è riportare questi argomenti nella contrattazione. Le nuove situazioni lavorative vengono regolate come solo parte di un software; invece devono essere contrattate economicamente e normativamente. Il motivo è legato alla legge 81\2017 che ha definito lo smart working uno strumento neutrale svincolandolo dalle relazioni industriali. Invece lo smart riguarda l’organizzazione ed il merito stesso del contenuto del lavoro, sul quale senza il tavolo sindacale il lavoratore non ha voce. Una volta usciti dall’emergenza sanitaria il provvedimento del 2017 e gli accordi individuali tra datore di lavoro e dipendente non potranno restare come prima: sono una modalità già superata dagli eventi, che andrà quindi sostituita con una contrattazione collettiva nazionale e territoriale.
Superare la legge 81..
Superarla nella modalità, ma perseguirne i contenuti che nella pratica sono stati disattesi. Alla nuova responsabilizzazione ed al continuo sforzo formativo richiesti, la legge determinava però per il lavoratore agile l’autonomia nel perseguimento degli obiettivi dati, con un proprio planning eventualmente sostenuto da un budget relativo. Nella pratica lo smart working è stato ed è un telelavoro da casa, con la necessità di operare su piattaforme anche non rese disponibili dalle aziende ma trovate con l’impegno e la fantasia del lavoratore. Poi ci sono temi ancora più generali..
Per esempio…
Alcune osservazioni che possono apparire banali. Il lavoro a distanza cambia la geografia urbana, crea flussi di deurbanizzazione e di deimmigrazione, desertifica quartieri e centri multifunzionali. Alcuni effetti negativi impattano duramente sui segmenti economici della ristorazione e dei servizi alle imprese (mense, pulizie, ristoranti). Le aziende risparmiano tra i sette ed i diecimila euro l’anno per ogni dipendente in lavoro agile (mancate spese di utility, riduzione degli affitti), anche se per ora sostiene i costi eccezzionali di sanificazione e trasformazione delle sedi. Si tratta di un risparmio a regime di 60 miliardi, di cui più della metà scaturito dal pubblico impiego. Il lavoratore riduce i costi di trasporto, ma aumenta quelle di utility e di connessione, oltre alla perdita (che sta rientrando con gli accordi relativi) dei buoni pasto. Allo stato attuale le imprese sostengono spese sempre nuove, prima sconosciute; i lavoratori si sforzano di adattarsi e lavorano tante ore in più che nessuno riconosce loro; l’amministrazione generale e locale incassa meno imposte ed accise, rimanda gli incassi fiscali e sostiene in via eccezionale i settori e le persone in difficoltà sia al lavoro che non. Nel passaggio dalla transizione alla normalità, bisogna trovare soluzioni concrete e sostenibili sui segmenti economici in difficoltà e sulla nuova geografia urbana, che sta mostrando l’altro volto, duro e vero, dell’auspicata smart city; soprattutto su parte del reinvestimento economico pubblico e privato dei risparmi disponibili che potranno attenuare gli oneri di stabilizzazione dei processi di cambiamento. Non si potrà impedire che qualcosa chiuda, ma bisognerà lavorare per un nuovo equilibrio che recuperi, nelle nuove modalità, occupazione, magari diversa, e redditi da lavoro e non. Nella stabilità futura, dopo l’emergenza, si ridefiniranno la nostra regione, la nostra città, il nostro Paese con l’aiuto responsabile di tutti.
Questa irreversibile trasformazione del lavoro pone questioni che vanno oltre la cointrattazione …
È vero, vanno oltre. Finora il sindacato, al di là delle differenze e delle competenze quotidiane, si è impegnato su un modello di sviluppo centrato sulle persone; ha cercato di tutelarle dal rischio di scelte calate dall’alto, imprenditoriali e politiche. Il sindacato si è aperto all’innovazione centrale costituita dallo smart working perché vede il miglioramento di vita per i lavoratori che comporta. Non si nasconde però che c’è però tanto lavoro da fare.
In effetti è un lungo riepilogo
Infatti, abbiamo parlato dell’applicazione di un vero smart working, il che determina la revisione dei rapporti contrattuali e dell’organizzazione del lavoro con nuove autonomie a tutto tondo per il lavoratore o per gruppi di lavoratori. Non può essere che a seconda della decisione di un sottosettore, si moltiplichino a strati le piattaforme non sostanziali, di comunicazione e scambio documenti. Il tempo di lavoro agile dovrrebbe essere scelta libera del lavoratore se il suo settore ne è abilitato. Anche se l’optimum per il sindacato è una forma di lavoro misto, che alterni presenza in sede e lavoro da remoto.Gli argomenti nello specifico sono infiniti, da quelli generali ai particolari. I cambiamenti intervenuti sono di tutti i settori economici nazionali e possono essere affrontati solo da un accordo generale che preceda la normativa.
Come fu per il telelavoro nel 2004
Certamente, anche perché in questo quadro di cambiamento del lavoro che trasforma non solo le aziende ma anche le relazioni, il territorio, l’economia indotta lontana e vicina e quella ambientale e sociale, non si possono affrontare solo le precipue relazioni industriali tra datore e lavoratore. Deve essere governata e sostenuta economicamente la trasformazione territoriale, economica e sociale, facendo ricorso agli importi economici liberati dalla nuova efficienza del sistema di lavoro agile. Sembrerebbe necessaria addiritura un’azione europea. Nel 2002 l’accordo sul telelavoro fu cosa lungimirante che prevedeva e facilitava la via della trasformazione che allora cominciava ad impattare. Oggi l’Europa, sotto la priorità dell’emergenza sanitaria, ha partorito linee guida sullo smart working che sono state giudicate piuttosto anodine e sicuramente sotto il livello di dibattito di Industria 4.0.
Torniamo al tema dell’inizio. C’è necessità di un Accordo europeo sul lavoro agile?
Probabilmente sì. Su questi temi gli attori che meglio possono intendersi sono le parti sociali più della politica e della Commissione impegnata sugli item dei debiti pubblici nazionali e delle pensioni. L’indebolimento del dialogo tra le parti sociali fa procedere nella confusione e nell’anarchia; non parliamo dell’idea che se ne possa fare a meno; idea impossibile da attuare ed assolutamente destabilizzante in Europa. Un nuovo Accordo dovrebbe trattare anche il fondamentale problema della perdita di produzione e di know how europei. Tutto il lavoro a distanza delle imprese oggi passa su piattaforme controllate in America ed in Asia. Tra tutte le sicurezze di cui ci preoccupiamo e che ci assillano, manca l’attenzione al controllo su server, piattaforme e apparati di comunicazione che nessun potere politico e burocratico europei controlla. L’Europa può multare ma non intervenire sostanzialmente sulle piattaforme adottate. Non è una questione di egoismo dei lavoratori e dei settori coinvolti della filiera digitale, di cui una larga parte già da tempo non esiste in Europa. È una questione di libertà; anche da questo punto di vista si evince l’importanza della voce autonoma dei lavoratori nel dibattito sulle scelte future, voce che non conclude sé stessa in quella imprenditoriale o politica. E nulla è più futuro dell’evoluzione, che vedremo, dello smart working.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.