Stemperare l’angoscia che non è solo paura, ragionare sulla rabbia e l’impotenza, se si può, se i tarli interiori lasciano spiragli di aria fresca. Non per dare consigli, ma per digerire queste nuove ristrettezze che pensiamo di non meritare. E mi ha addolorato il suicidio ieri in metropolitana Duomo, la fuga nelle seconde case di molti milanesi, la rassegnazione. Inutile sottolineare il senso di responsabilità dei cittadini e i quartieri sono diventati paesi, la gente si riconosce nell’altro, centro e periferia hanno fatto emergere che il mostro virus è molto democratico, che infettarsi è sempre una tragedia e non si vede la fine o l’arresto o il rimedio. E nella fuga da una città che ha risvegliato il sospetto negli incontri, che ha annullato la pacca sulla spalla, quel ridere di niente, quella sicurezza del pane e della bambola nuova, c’è anche una folle voglia di libertà e di contatti umani.
Un mese hanno deciso, fino al 3 dicembre, ma la previsione per il dopo sarà fatica e rinuncia. Non credo che il trombettista o il violinista suoneranno dalle finestre il loro desiderio accorato di vita: questo è un tempo di realtà che sembrano irrisolvibili, che masticano un futuro incerto. E non abbiamo imparato ad essere insieme, a voler stare insieme. Dalla finestra guardiamo il trionfo di colori di un autunno che abbraccia Milano, la magia delle foglie cadute che si rincorrono al lieve vento del tramonto. Perché i tramonti a Milano sono di una bellezza che incanta e la città sa promettere il futuro.
(foto Andrea Cherchi)
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano