Una notte con i volontari della Croce Bianca che, a Milano, scendono in campo per fronteggiare l’emergenza coronavirus e assistere i cittadini che segnalano casi accertati o sospetti. E’ il reportage che Lisa Pendezza e Francesco Leone hanno realizzato per notizie.it.
La ‘missione’ comincia alle 18 nel cuore della città, epicentro della seconda ondata, dove i volontari si preparano. Anche loro fanno parte di quell’esercito di eroi per cui la scorsa primavera abbiamo cantato dai balconi. “Un giorno stavo tornando a casa e mentre attraversavo il cortile ho sentito qualcuno battere le mani per me. Mi sono sentita in colpa, avrei voluto spiegare che non me lo merito: quel giorno ero stata solo al centralino”, spiega Silvia, una delle volontarie che ci fa strada verso l’ambulanza che accompagneremo in questa notte in prima linea.
Era il 2016 quando è entrata in Croce Bianca, il che fa di Silvia “una delle più ‘giovani’ qui dentro, anche se non anagraficamente. Sono gli anziani a colpirti di più – osserva Silvia – perché davanti a un virus sconosciuto traspare tutta la loro fragilità. Improvvisamente si sono trovati ad affrontare, spesso in solitudine, una malattia di cui si sa poco”.
Il silenzio della notte è interrotto dal suono della chiamata in arrivo, subito accompagnata alla conferma: “Tampone positivo“. Inizia allora (con una combinazione di rapidità e precisione, perché bisogna partire il prima possibile ma niente deve essere lasciato al caso) il rituale della vestizione che trasforma i volontari in figure irriconoscibili. La tuta bianca, la mascherina, i guanti, il nastro adesivo intorno a polsi e caviglie che sigilla ogni fessura in cui il virus potrebbe infilarsi, gli occhiali che si appannano subito, si ricoprono di uno strato di umidità che rende quasi impossibile vedere e farsi vedere, ostacolando anche il contatto attraverso lo sguardo, l’unico concesso.
“Non ho mai avuto paura per me stessa, non per incoscienza ma perché so di essere molto attenta – dice Elena – però per la mia famiglia sì, sono preoccupata, perchè in casa con me ci sono i miei genitori che soffrono di altre patologie”.
A fare paura davvero però, spiega Silvia, non è l’infezione o dover indossare una tuta e soccorrere un paziente ma “è la disgregazione“, è chi crede che le ambulanze girino a vuoto e negli ospedali ci sia calma piatta, chi nega l’esistenza della malattia persino quando finisce lui stesso in pronto soccorso e ha bisogno di essere curato. Proprio ora che dovremmo fare fronte comune non riusciamo più a ritrovare lo spirito di marzo, abbiamo dimenticato gli arcobaleni e gli andrà tutto bene”. “Capita che la gente ci eviti se ci incontra sul pianerottolo, ma capisco che la paura possa spingere a far finta che il problema non esista” sospira Silvia. “In un certo senso, mi sento vicina a queste persone. Quello che vorrei è che riuscissero ad avere una reazione più razionale a una paura che, in fondo, abbiamo tutti, anche noi”. (Adnkronos)
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