Un idolo e un amico, la scoperta dell’uomo Paolo dietro al mito Pablito

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Il ricordo personale di un calciatore capace di far sognare un’intera generazione e di restare una persona meravigliosa

Tutto ha inizio un giorno dei primi mesi del 1977. Leggendo “Topolino” scopro l’esistenza di questo ragazzino che non smette di segnare e sta trascinando il Lanerossi Vicenza (un tempo si chiamava così) in serie A. La stagione dopo, sempre grazie ai suoi gol, i veneti si piazzano al secondo posto dietro alla Juventus. Diventa naturale, per un bambino che gioca a calcio in cortile, prenderlo come esempio. Soprattutto dopo i mondiali in Argentina nel 1978, quando Bearzot decide di lanciarlo dal primo minuto nella prima partita della Nazionale facendolo diventare un’icona internazionale.

Da quel momento non è solo il mio idolo ma quello di un intero Paese. Il marito che le mamme vorrebbero per le proprie figlie, il fidanzato ideale, il testimonial perfetto delle pubblicità. Poi arriva il trasferimento a Perugia, l’incredibile vicenda del calcioscommesse del 1980, con la volontà da parte della procura federale di colpire un giocatore simbolo per dimostrare di essere al di sopra delle parti (anni dopo i suoi accusatori ammetteranno di essersi inventati tutto chiarendo, finalmente, la sua totale estraneità). Diventa così la perfetta incarnazione dello spirito di una Nazione (tutto si può perdonare tranne il successo), entrando quasi in una dimensione mistica (l’innocente da sacrificare per un bene superiore). Tre anni di squalifica, poi ridotti a due, giusto in tempo per il mondiale 1982.

E qui inizia la Favola. Lui non sta in piedi, sembra un ectoplasma che si trascina per il campo. Poi la rinascita. Tre gol al più forte Brasile di sempre (dopo quello del 1970), i due in semifinale, quello alla Germania al Bernabeu e la Coppa sollevata al cielo di Madrid. Non so a voi ma a me è sempre sembrata la sceneggiatura perfetta. L’ascesa, la caduta per un’accusa ingiusta, la rinascita che ti porta sul tetto del mondo grazie alla caparbietà di un allenatore capace di sopportare le critiche più atroci perché non smette di credere in te. Gli americani ci avrebbero fatto almeno dieci film o serie televisive.

Poi capita che Paolo Rossi (per me sempre il Pablito di Argentina ’78 e Spagna ’82) diventi opinionista nelle trasmissioni dello sport di Mediaset. E così mi ritrovo a conoscerlo personalmente. La prima volta che me lo hanno presentato ho saputo soltanto dire: “Grazie” mentre gli stringevo la mano. Poi ci siamo scambiati i numeri di telefono (nella mia rubrica è salvato sotto il nome “La Leggenda” e ha dovuto sorbirsi per anni il mio messaggino ogni 5 luglio, l’anniversario di Italia-Brasile) e siamo stati più volte a cena dopo le trasmissioni. Vederlo salire sulla mia macchina era come fare un duetto con Mick Jagger o Paul Mc Cartney. Quando si trovava intorno al tavolo con persone sconosciute passava il tempo a informarsi sul loro lavoro, la loro vita, con un interesse cha a me, che lo consideravo un mito, sembrava incredibile. Non era una posa, ci teneva veramente.

Il momento più bello, egoisticamente, era quando lo riportavo in albergo. In quei minuti cercavo di spiegargli l’importanza di quel mondiale per me e per la mia generazione. Con pazienza infinita si sentiva ripetere, ogni volta, che lui in Spagna non ha solo fatto il suo dovere. No. Ci ha regalato qualcosa di inestimabile: la speranza. Ha trascinato Rocky Balboa fuori dallo schermo e l’ha fatto diventare reale. Tutti noi, bambini o adolescenti di quel periodo, abbiamo davvero iniziato a credere che niente fosse impossibile. Spagna ’82 è una categoria dell’anima, qualcosa che è dentro di noi come un insegnamento indelebile. Si può credere, si può sognare. Tutto è possibile. Poi ci ha pensato la vita a ridimensionare le cose ma quel pezzetto di Paradiso non se n’è mai andato.

Grazie Paolo di avermi ascoltato, di aver condiviso il tuo tempo con me, di aver sopportato i deliri di un fan. Di avermi regalato quel 5 luglio, l’ultimo abbraccio con mio padre, il solito mix tra storia (anche con la s minuscola) e quotidianità personale. Io, comunque, quel messaggino, continuerò a mandartelo.

Andrea Cocchi (tgcom)

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