“L’amico è il vostro bisogno corrisposto” (Kahlil Gibran, poeta)
L’avevo notata perché portava sempre un fazzoletto in testa, un fazzoletto a quadri che ricordava i fazzoletti con cui si avvolgeva la ciambella per portarla dal fornaio a cuocere, quando in casa ancora non esisteva il forno. A volte chiedeva con timidezza, gli occhi sgranati a specchiare il cielo, l’elemosina. A volte, ritmando con la scopa una musica sconosciuta, scopava le scale davanti al mio studio medico. Si, una volta, mi aveva chiesto qualcosa per il mal di testa e aveva forse tentato un approccio, una conoscenza, ma si sa, la vita di ciascuno di noi ha le sue esigenze, i suoi momenti.
Mia madre stava molto male, da tempo, ed io non avevo il cuore aperto. Non ne sono fiera, ma il dolore, a volte, può rendere chiusi e un po’ egoisti. Vagamente sapevo che non era italiana, che aveva un figlio, che era felice se qualcuno la impegnava in un lavoro, qualsiasi esso fosse e che aveva un’espressione dolce quando rispondeva al saluto, chinando il viso, quasi con deferenza.
Intuivo una certa simpatia, rispetto e ammirazione per quello sguardo intenso che mi osservava da lontano, con pudore.
Mia madre morì a fine luglio. Il paese partecipò con affetto al funerale. I miei pazienti mi furono vicini, con simpatia. Non mi accorsi e non mi chiesi mai nulla della sua assenza. Ero troppo occupata a chiedermi “Ho fatto tutto il possibile?”.
Mamma aveva speso bene i suoi novanta anni di vita, con determinazione e onestà: una infanzia difficile, una adolescenza intensa e una maturità bellissima, ricca di interessi e di sentimenti.
Della signora con il fazzoletto in testa, stranamente nessun ricordo, neppure un’immagine , quasi fosse stata una presenza minore, quasi fosse la sua, una vita senza dignità.
Era la vigilia di Natale, la prima vigilia di Natale dopo la morte di mia madre. Avevo passato il pomeriggio a fare il presepe come faceva la mamma, a fare la spesa comprando le cose che piacevano alla mamma, avevo decorato l’albero come sapeva fare la mamma. Mi ero comprata un cappello blu, il colore preferito della mamma. Aspettavo la sera.
La casa era ordinata come, forse, mai era stata e anche quell’ordine mi regalava una sensazione di inquietudine come se la vita, ad un tratto, si fosse fermata e non volesse riprendere a pulsare.
Sbadatamente avevo lasciato aperta la porta di casa. Alzando gli occhi la vidi, ad un tratto, davanti a me, il fazzoletto a quadri in testa, un vestito nero lungo, gli occhi rotondi e buoni, le mani tese per offrirmi un mazzo di fiori avvolto da un foglio di giornale. La verità del suo sguardo mi commosse. “Ho pensato che anche lei fosse sola. Anch’io ho perso mio figlio in un incidente stradale. L’ho sepolto in Polonia, accanto a suo padre. E sono tornata”.
Improvvisamente mi sentii euforica, quasi felice. La cena fu allegra. Scoprivo il piacere di dire cose anche senza senso, con le voci che si accavallavano, si rincorrevano come fossero in un vortice infinito. Mi parlò di un piccolo paese di campagna, di una casa con la siepe di sambuco, di un grande amore spezzato, della musica e dell’arte.
Le campane di mezzanotte ci sorpresero a ridere davanti a un bicchiere di spumante caduto a terra. La Chiesa era vicina e, nonostante il freddo, il cielo aveva messo il vestito blu più brillante.
Camminavamo in silenzio, mi sembrava di riconoscermi nel suo dolore e avrei voluto dirle “Non piangere. Ti regalerò il mio tempo e poi un cappello e poi un cappotto e parleremo ancora, tutte le volte che vorrai, tutte le volte che sarà necessario, cara amica mia, Lucia”.
Nene Ferrandi dal volume “Racconti di Natale”
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano