Lo smart working era applicabile da tempo, già dall’accordo sul telelavoro di 20 anni fa. Per toccare il picco di otto milioni di lavoratori ha avuto bisogno del terrore della pandemia, suo peccato originale, ma non l’unico. Gli altri sono: il nome (falso anglicismo made in Italy di slang a sproposito); la mancata applicazione della legge 81/2017 che l’ha introdotto e l’assenza dell’istituto nei contratti. Eppure, ha successo, anche se è semplice lavoro da casa e, per alcuni, vacanza da pubblico impiego. I rischi che porta con sé sono molteplici, come la possibilità di un nuovo business bug, lo scontro tra “smartisti” e baristi, il reverse back dell’urbanizzazione e della storica emigrazione interna, il suicidio di smart city e di coworking. Infine, sembra inevitabile il ritorno trionfale dell’operaio, l’unico non smart. Il cambiamento non si ferma qui, ma è indispensabile un nuovo accordo perché lo smart working non diventi robot working.
Autore
Giuseppe Mele, fiorentino di nascita, veneto e romano d’adozione, studi tra Bologna, Firenze e Mosca, giornalista pubblicista, ha lavorato per trent’anni nelle aziende tecnologiche dell’informatica privata e pubblica e delle telecomunicazioni, vivendone per un decennio le vicende sindacali. Ha scritto Letture Nansen (in russo), Digital Renz Akt, Renzaurazione.
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