Il Codice della crisi ha rappresentato un passo ulteriore verso il superamento di una visione punitiva del diritto fallimentare, ma restano alcuni profili critici preoccupanti. Il legislatore dovrebbe approfittare del momento per mettervi mano.
La pandemia da COVID-19 ha suggerito al Governo l’opportunità di rinviare l’entrata in vigore del Codice della crisi di impresa. In verità, come evidenziato dal Gruppo dei Trenta presieduto da Mario Draghi e Raghuram Rajan, l’emergenza pandemica rappresenta una insperata opportunità: quella di rivedere la logica e la meccanica delle legislazioni sulla crisi di impresa. In questa attività il legislatore italiano dovrebbe essere in prima linea.
Nel Briefing Paper Dal “fallimento” alla “liquidazione giudiziale”: «cos’è mai un nome?» (PDF), Giuseppe Portonera, fellow dell’Istituto Bruno Leoni, ricostruisce i profili più critici della recente riforma del diritto della crisi di impresa, la quale rischia di risolversi tuttalpiù in un intervento cosmetico. Per l’individuazione di questi profili, si propone anzitutto uno studio della storia del fallimento, grazie al quale si realizza come quest’ultimo, specialmente in Italia, non sia stato visto tanto come evento fisiologico nella vita economica, quanto piuttosto come evento fraudolento orchestrato dal fallito, e come tale da sanzionare nel modo più duro possibile. Vero è che il legislatore del Codice ha tentato di portare a maturazione il cammino di progressiva emancipazione del diritto fallimentare da questa visione punitiva, ma la riforma sembra mal disegnata e, se possibile, ancora peggio realizzata.
Due aspetti destano particolare preoccupazione. Il primo è rappresentato dalla disciplina della procedura di allerta, rispetto alla quale «dietro il paravento della commendevole intenzione di cercare una soluzione alla crisi si intravede il tentativo di mettere sotto stretta sorveglianza l’impresa, per evitare non tanto l’esito del dissesto irreversibile, quanto piuttosto temute frodi». La procedura – osserva Portonera – si presenta infatti come «fortemente burocratizzata» e «per certi aspetti persino de-responsabilizzante».
Il secondo è il permanere delle difficoltà che il soggetto in crisi incontra nell’accedere a una “seconda occasione” per fare impresa. Per Portonera, il legislatore avrebbe dovuto «ispirarsi al modello rappresentato dal Chapter 11 statunitense, per consentire al debitore di dimostrare, già durante la procedura, la propria serietà circa le intenzioni relative al risanamento aziendale. Diversamente, invece, in base all’attuale sistemazione di interessi proposta dal legislatore sembra possibile sostenere che il debitore che desideri avere una “seconda occasione” sarà portato a preferire la strada più radicale della liquidazione giudiziale a quella del tentativo di ristrutturazione dell’impresa: ma chiudere l’attività non è sempre la scelta economicamente più efficiente e socialmente vantaggiosa».
In definitiva, conclude Portonera, se è vero che «la logica sanzionatoria originaria dell’istituto si è via via quasi del tutto stemperata, l’idea che il fallimento sia un evento da guardare con sospetto, perché conseguenza di una “colpa” dell’imprenditore, non sembra invece completamente superata. In altre parole, non si è mai portato a compimento il cammino verso la concezione, tipica dei paesi anglosassoni, delle procedure di governo della crisi come occasione per garantire all’imprenditore una seconda occasione: ma un passaggio del genere è obbligato, se si vuole promuovere un ecosistema imprenditoriale aperto, competitivo e innovativo».
Il Briefing Paper Dal “fallimento” alla “liquidazione giudiziale”: «cos’è mai un nome?» di Giuseppe Portonera è liberamente disponibile qui (PDF)
Istituto Bruno Leoni
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