Mi avvicino nella notte a Ferrara, dopo aver visto con emozione, condivisa da tanti, la privata proiezione, attraverso Sky, del film di Pupi Avati Lei mi parla ancora, tratto da uno dei quattro libri di mio padre: Lungo l’argine del tempo, Non chiedere cosa sarà il futuro, Lei mi parla ancora, Il canale dei cuori. Dormirò nella Locanda dell’Annunziata, in prossimità del Castello Estense, dove si apre la mostra dedicata a un solo dipinto di Giovanni Boldini, il ritratto animato della contessa Berthier de Leusse, affidato a tempo indeterminato ai nostri musei da una proprietaria innamorata ma prudente.
Alcuni monumenti della città, con ordine e discrezione, sono nel film. Non i più clamorosi, non il Castello, non piazza Ariostea, non Palazzo dei Diamanti, ma gli scorci che hanno a che fare con i luoghi vissuti dai miei genitori, oltre alle case di campagna e al fiume. La scelta, suggerita dal libro e da mia sorella, è pertinente. Le prime, memorabili inquadrature documentano le architetture circostanti gli spazi fisici e psicologici del giorno del matrimonio, nella piccola chiesa di San Gregorio, tra via Cammello, via Carmelino, vicolo del Granchio, fino a via Giuoco del Pallone. Nelle riprese, a poca distanza dalla casa dei miei nonni, di mio zio e ora di mia sorella, la casa di Brunoro Ariosti, fratello di Ludovico, che vi abitò e vi ambientò alcuni dei suoi testi teatrali, vediamo l’arioso porticato, mille volte percorso, di casa Minerbi, al cui interno ridono e soffrono le virtù e i vizi in alcuni fra i più antichi affreschi ferraresi. Di lì inizia il corteo nuziale, e si stringono le mani, promettendosi fedeltà e immortalità, i novelli sposi.
La foto di copertina del libro, nella edizione definitiva de La nave di Teseo, ci mostra, in quell’alba degli anni Cinquanta, due ragazzi consapevoli e indicibilmente eleganti, che i giovani attori, Isabella Ragonese e Lino Musella, interpretano con straordinaria identificazione. Lì, davanti a casa Minerbi, mia madre attraversa la strada per raggiungere mio padre che l’attende sotto i portici, e viene quasi investita da una Alfa Romeo 1900 di amici invitati alle nozze. È un’intuizione felice, spontanea, che trasmette vitalità ed entusiasmo. Poi riguardi la fotografia, che ferma per sempre quel momento, e ti rendi conto che non può essere accaduto. I due incedono regali, con discrezione ed eleganza: lui, magrissimo, con il doppiopetto scuro, una cravatta grigio argento, e il fazzoletto bianco che spunta dal taschino, i capelli tirati indietro, con una sobria scriminatura; lei, con un tailleur informale color panna, la camicia bianca e, invece dell’abito da sposa, ricusato per naturale insofferenza (quando milioni di ragazze si sposano per indossarlo), un velo leggero sui capelli e il bouquet di fiori tra le mani. Isabella Ragonese, nella sua maliziosa semplicità, ne intercetta una componente del carattere fiero, declinandolo in risoluta dolcezza. Ma la foto parla, da subito, a far intendere la natura ribelle e dominante di mia madre, a fianco dell’esile e contenuto consorte. È lei che guida, che decide, che sceglie la direzione. Lui segue. E ha la stessa fragilità esibita dal delicato Lino Musella.
Poi la geografia dei luoghi si dipana tra il fiume, le locande e le case di campagna: la casa madre di Ro, con dovizia d’interni, con collezioni di quadri e sculture, mai esaltate, sempre in penombra, nella luce tenue degli anni tardi, o in infilate di insieme di alcune sale. È la casa della vita, il tempio che io ho arredato e che mia sorella (interpretata con nevrotica verosimiglianza da Chiara Caselli) consacra, perché in quegli spazi vede ancora muoversi i nostri genitori. E Pupi Avati li ha rianimati, facendoli riattraversare da Renato Pozzetto, perfettamente calato nelle vesti di Nino, e da Stefania Sandrelli, interprete degli anni più dolorosi di Rina. Sarà stata così, come lui la vede e la racconta, l’intimità delle loro notti. E poi c’è la casa di mio padre, prima del matrimonio, a Stienta, sull’argine veneto del fiume: lì abitavano mia nonna Tina e le mie zie, Angiolina, Lidia, Nelly, e la prozia Liduina, specchiata da una perfetta Rita Carlini. Era la casa attigua al mulino di famiglia, proprietà di mio nonno Vittorio, di leggendaria eleganza e galanteria, e che, attraverso il mulino, diede, nel 1913, per la prima volta, la luce elettrica al paese. La ricostruzione degli interni e dei caratteri è perfetta, e non va intesa come un contrasto di classe, tra mondo contadino e mondo cittadino, ma come contrapposizione tra mentalità ferrarese, di ascendenza pagana, e suggestioni romagnole (mia madre è nata a Santa Maria di Codifiume di Argenta, ai confini con il ravennate) e sensibilità veneta, meglio polesana, con venature di bigottismo e di ipocrisia. I due erano veramente complementari, e caratterialmente contrapposti: lei fuoco, lui acqua. Lei sulfurea, lui pacato, benché avesse conosciuto la furia del fiume nella alluvione del 1951, poco dopo la serafica fotografia del giorno del matrimonio.
Ma l’incontro con la famiglia di mio padre serve non solo a indicare e tratteggiare i diversi ambienti, con la poesia dei luoghi e della campagna, ma anche a dipingere, soprattutto grazie al temperamento di lei, la dimensione psicologica del loro rapporto in quello spazio intermedio, in quella terra di nessuno, se non loro, che è la casa di Ro, né Ferrara né Stienta, e che loro si costruiscono come un esclusivo rifugio del cuore, dove lui continuerà a sentire viva lei anche dopo la sua partenza: «lei mi parla ancora». Ferrara c’è, gloriosa, in un memorabile scorcio del fianco del Duomo con la Loggia dei Merciai e il monumentale campanile di Leon Battista Alberti.
La scelta di Pupi Avati è perfetta. Miscela di architetture, senza precedenti, la Loggia dei Merciai è una irruzione vernacolare, un abuso di bancarellai, che da provvisori si sono fatti stabili. Come si può intuire dal nome, questo porticato, fin dalla sua costruzione, era sede di attività commerciali di ogni genere, come di fatto lo è oggi. Con la costruzione della loggia venne occultato l’antico zoccolo in marmo con l’iscrizione dedicatoria («Li mile cento trenta cenque nato/ fo questo templo a San Giorgio donato/ da Glelmociptadin per so amore;/ e tua (o mea) fo l’opera, Nicolao scolptore») che fiancheggiava tutta la lunghezza del Duomo; ancora, in alcuni negozi, è possibile vederne alcuni spezzoni, a testimonianza di come doveva essere originariamente la facciata laterale della Cattedrale, con la grande porta dei Mesi, brutalmente smontata.
La poesia del film, oltre che nelle stanze della casa e nella campagna, nelle luci del tramonto, nelle vedute del fiume, nella polvere delle strade, nei luoghi della pesca con le maestose carpe (lo zio Bruno scriveva: «io voglio vivere pescando/ e conto i giorni/ della mia esistenza/ numerandoli coi soli/ e con la pioggia/ che io avrò a godere/ e soffrire, attendendo/ che il sughero s’affondi/ o che risuoni a tratti/ il campanello in cima/ della canna/ annunciando la presenza/ di una immensa carpa,/ di un argenteo temolo,/ di una trota guizzante,/ nella solitudine immensa/ del Po di Levante,/ del sonoro Livenza»…), è in quel ponte di chiatte che univa il Veneto al Ferrarese, tra Ro e Polesella, e che si apriva al passaggio di navi e petroliere con il lento spostamento di pontili di legno. Pochissimi ne sopravvivono, e nel film si vede quello a Torre d’Oglio, tra Cesole e San Matteo delle Chiaviche. I miei genitori, leggeri, l’attraversano in bicicletta come in un viaggio verso la luce, con assoluta, giovanile felicità.
Dopo i luoghi, i pensieri: il film, come il libro, parla della eternità dell’amore, nella promessa, tradita, di mia madre a mio padre, di essere immortali. La scena chiave è nell’incontro di lui, vecchio, con lei, appena conosciuta, che gli restituisce i libri prestati. Lui rivendica con dolore quella promessa, lamentando di sentire tutti dirgli che lei è morta, che se ne è andata. E lei lo rassicura, e gli garantisce di esserci, e che nessuno può contraddire o infrangere il loro patto segreto. Lei c’è, non finirà di esserci, così come lui l’ha ritrovata sulla porta di casa a Ferrara, intatta, immortale, eternamente bella.
Qualcosa di simile a quello che dice Montale alla sua «Mosca»: «Avevamo studiato per l’aldilà/ un fischio, un segno di riconoscimento./ Mi provo a modularlo nella speranza/ che tutti siamo già morti senza saperlo». In Montale è condiviso questo principio della immortalità dell’amore, e della presenza degli assenti, o della assenza dei presenti, anche con riferimento alla figura, spirito guida, del fratello di lei: «Tuo fratello morì giovane…/ L’amavo senza averlo conosciuto. / Fuori di te nessuno lo ricordava./ Non ho fatto ricerche: ora è inutile./ Dopo di te sono rimasto il solo/ per cui egli è esistito. Ma è possibile,/ lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi».
Mio padre parla di sua moglie, di nostra madre, con altrettanta intensità: «La tua voce cambiava quando parlavi al telefono con Elisabetta. Capivo chi era all’altro capo del filo dal tono che usavi. Quella dolcezza era riservata a lei. A Vittorio hai sempre parlato come parla un padre. A lei come una madre. A me come una donna. Possedevi il dono delle lingue. A ciascuno la sua. Nessuna mi aveva mai parlato così. Né nessun’altra l’ha mai fatto. Credo sia questa la cosa che mi ha fatto innamorare. La tua bellezza era l’esca, certo, ma è stata la tua testa a pescare nel mio cuore. Mai conosciuto una testa così. Lucida, vivida, fulminante. E io non sono mai stato tanto felice di aver abboccato a un amo. Un amore che vive anche adesso che tu non vivi più. Per questo il dolore è così grande. Finché morte non vi separi è una bugia. Il minimo sindacale. Un amore come il nostro arriva molto più in là. E il tuo lo sento anche da qui».
E così sia.
Vittorio Sgarbi da Il Giornale.it
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