Non solo “Sistema” nella Magistratura, ma anche “Sistema” nella Cultura

Attualità

Leggendo il libro di Sallusti/Palamara si hanno sorprese e conferme.

Si resta infatti sorpresi dal livello di violenza della lotta interna nella magistratura. Se nel mondo del teatro la massima ostilità che si può commettere ai danni di un collega è quella di andare a fischiare un suo spettacolo, nella magistratura invece scopriamo che si fa ben di peggio.

Secondo Palamara, quando un magistrato si mette in contrasto col disegno di quello che il Sistema ha già deciso, compare il “cecchino”, ovvero qualcuno che tira fuori una vecchia carta. Che molto spesso non dimostra niente di grave, ma getta una macchia bastevole a infangare il magistrato in questione, tanto da rovinargli la carriera, talvolta inducendolo addirittura ad abbandonare la magistratura.

Se un tale livello di violenza stupisce e fa rabbrividire, anche nei settori culturali, con meno violenza regna da sempre una logica analoga.

Ci sono figure fuori dal coro (penso, per fare un nome, a Giuseppe Berto) che hanno dovuto aspettare decine d’anni dopo la morte per essere riscoperti mentre i libri di molti vertici del sistema letterario sono spariti dagli scaffali delle librerie insieme ai loro autori. Il rapporto tra forza tribale e qualità artistica è ancora più bruciante in teatro, in cui le opere vengono smontate dopo una o due stagioni e viste solo dagli appassionati. Si può quindi dare del “cane“ a un teatrante senza timore di essere smentiti dal presente e soprattutto dal futuro.

La sinistra italiana è riuscita, e riesce, a esercitare una tale egemonia da abbinare la parola “intellettuale“ con quella “di sinistra“.

In Francia, per citare una nazione a noi affine, non è affatto così.

Il nome del centro culturale meno accademico, più avanzato di Francia, il Beaburg, cita la memoria di un celebre presidente successore e seguace di De Gaulle, come George Pompidou che ne promosse la fondazione. Come se andassimo a vedere i film della Festa del cinema all’Auditorium Andreotti. Non potrebbe mai succedere, visto che Andreotti è ancora ritenuto da una parte del popolo della sinistra più addentro al Sistema della cultura come il capo della mafia.

Il Sistema Cultura fa bollare, per esempio, come ignobile lottizzazione ogni nomina culturale che non fa capo a se stesso, mentre eleva a trionfo dei meriti culturali ogni nomina maturata nel suo perimetro. Il già citato Pompidou varò un grande festival multisciplinare, il Festival d’Automne, e nominò un suo amico, Michel Guy, alla sua testa. Guy fu poi confermato dai presidenti successivi di diverso colore politico. Non aveva evidentemente la “lebbra” rispetto al sistema; analogamente un intellettuale marcatamente anticomunista, Bernard Henry Levy, non si è mai visto circondato da un alone di ribrezzo ma anzi ascoltato con interesse anche da chi vota a sinistra.

D’altra parte la capacità egemonica della nostra cultura comunista è confermata da una ricorrenza di questi giorni. La mia generazione non ha avuto notizie scolastiche delle foibe. Quando ne sentivo  parlare pensavo fosse un’invenzione dei fascisti, come negli anni del liceo ero convinto che De Gaulle fosse un pericoloso dittatore appena mascherato da approvazione elettorale. Ci sono voluti decenni per capire che le foibe erano un’orrenda strage titina e che De Gaulle è stato un padre della vittoria democratica sugli autoritarismi.

D’altra parte anche il fronte dei moderati ha “dato per vinta“ la partita dell’egemonia alla sinistra comunista, accontentandosi di affamare il settore della cultura, che, dal mondo dell’insegnamento a quello dello spettacolo, è sempre stato sottofinanziato, rispetto, per continuare il paragone, alla Francia.

Per restare nel settore teatrale, che è più vicino alla mia esperienza, guardiamo a Zeffirelli e Ronconi, che, dopo Visconti e Strheler, sono stati i due maggiori talenti registici italiani del secondo ’900. Il primo ci è stato raccontato come un fenomeno di colore, coi suoi cagnetti, le sue fissazioni; è comparso quasi più spesso sui media come tifoso della Fiorentina che per il suo lavoro.

Eppure è stato il regista italiano più richiesto nel mondo del secondo dopoguerra, acclamato, piaccia o meno, nel settore  teatrale, lirico e cinematografico. Il secondo è stato certamente un grande maestro, ha rivoluzionato il linguaggio drammaturgico in prosa e in lirica. Nessuno ricorda mai però che ben due teatri pubblici hanno visto i loro bilanci devastati da due  gigantesche produzioni ronconiane e uno dei due ha dovuto addirittura chiudere i battenti. Non sono un fanatico né del primo né del secondo, personalmente continuo a preferire Strehler, ma non si può non rilevare una differenza di trattamento mediatico enorme tra i due maestri.

E mentre di Zeffirelli si ricorda sempre la sua amicizia con Berlusconi, di Ronconi nessuno rammenta che si dimise dalla direzione della Biennale Teatro per dissociarsi dalla Biennale del dissenso di Ripa di Meana, che oggi neppure il più arcaico degli ex comunisti oserebbe contestare.

Il doppiopesismo potrebbe trovare molti altri esempi e profila uno scenario della nostra società pieno di santuari intoccabili, di persone, tribù, corporazioni di cui si può parlare male a mezza bocca ma non apertamente o pubblicamente. Il caso Marta Russo, su cui HuffPost ha prodotto un lavoro straordinario, ne è una conferma lancinante.

Ripercorrendone la storia giudiziaria si ascoltano tante incongruenze, memorie scattate con mesi di ritardo, testimoni intimoriti. È una vicenda da caso Dreyfus nostrano. Il processo suscitò per fortuna molta indignazione, anche tra i media. Eppure non c’è stato un Zola italiano.

Nessuna figura di rilevo si è messa in gioco per i due ragazzi, sul loro caso non è stato scritto un romanzo, fatto un film o una serie tv. Le poche produzioni di documentari e racconti si dividono tra il sacrosanto dolore per la morte della ragazza e il caso giudiziario. Probabilmente perché, per partito preso, la corporazione degli intellettuali non attacca quella della magistratura, due corporazioni cugine, tanto da aver visto giudici diventare scrittori di successo, tra cui uno coinvolto proprio in quel processo.

La nostra capacità di guardare nel merito, di giudicare le qualità  di un autore  o di un regista, o rilevare l’assurdità di un verdetto, non ha uno sguardo lucido e permeato di onestà intellettuale. Contro questa logica che vede il male assoluto in chi non appartiene al sistema nasce ora il governo Draghi, in cui alcuni eccellenti rappresentanti del Sistema lavoreranno fianco a fianco con ex rappresentanti del Male. È stato chiamato un governo di tregua. Non è una bella parola. La tregua è fenomeno intrinsecamente transitorio, pausa dentro una guerra che si è solo interrotta.

Potrebbe essere invece un’occasione di pacificazione, che metta fine, ovviamente da entrambe le parti, alla logica che individua il diverso da sé come un nemico e sappia invece riconoscere  nelle diversità una ricchezza . Se invece continuerà la guerra proseguiremo a contare vittime. L’ultima è il mio amico Paolo Isotta, scomparso in questi giorni. Paolo aveva un carattere pungente e sfrontato che ha fatto velo al suo  dolore la propria emarginazione. La celebre livella di Totò, a cui ha dedicato il suo ultimo libro, non vale per il Sistema. Secondo la celebre poesia, la morte “livella”. Invece il sistema dei grandi media  ha celebrato l’acerba fine di Paolo in sordina, in un modo che mai sarebbe stato riservato ad uno dei maggiori eruditi musicali del nostro tempo, se avesse militato nella parte giusta della barricata

Blog Luca De Fusco regista

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