A lungo negata e tuttora ignorata, la memoria delle stragi italiane nel Nordest si è stabilizzata di fronte all’opinione pubblica. Questa istintivamente si è abituata alla sequele commemorativa delle memorie (giorno della memoria del 27 gennaio e giorno del ricordo del 10 febbraio) attribuendo loro rispettivamente qualifica da commemorazione di sinistra una e di destra, l’altra.
Solo in Italia il giorno della memoria, istituito dall’Onu 60 anni dopo la liberazione, da parte dell’Armata Rossa, del campo di concentramento di Auschwitz, ha precipue finalità antifasciste, e, più in senso lato, antidestra. La risoluzione 60/7 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, in riunione plenaria, associò il ricordo dello sterminio degli ebrei alla glorificazione per l’esercito russo che, sulla strada dell’invasione della Germania, liberò il tristemente famoso campo di concentramento in territorio polacco, già austriaco. Risuonava amaro l’omaggio all’esercito di un paese antisemita, ieri come oggi, repressore fino ai ’70, delle vittime che si andavano a celebrare. L’Onu, sempre terzomondista, colse l’occasione per assestare un colpo all’Occidente, senza realmente celebrare gli ebrei. D’altronde alla stragrande maggioranza dei quasi duecento paesi al mondo, la questione ebraica, è storicamente, etnicamente, geograficamente, del tutto estranea; per molti di loro è associata al nemico americano come questo fosse tutto ebreo.
In Italia, più particolarmente, la cosa si riduce, non nella celebrazione delle vittime ebraiche, quanto nella condanna del fascismo, accomunato storicamente più di quanto sia legittimo al nazismo; allo scopo di proiettare nei millenni l’ostracismo alla destra.
Il giorno del ricordo dei massacri delle foibe e della diaspora giuliano dalmata, pur tra tante difficoltà, dalla sua determinazione del 2004, si è ormai affermato di fronte alla evidente e smaccante realtà storica. Ora il nostro mainstream lo vorrebbe sterilizzare dall’annosa esclusiva rivendicazione del patriottismo italiano, a sua volta evocato e rivendicato a lungo solo dalla destra estrema, rendendolo una commemorazione italoslovena attenta a non citare mai i persecutori, i servizi segreti ed i partigiani jugoslavi, accompagnati anche, in vari casi, da quelli italiani. Obiettivo finale, incanalare, magari rocambolescamente, anche la tragedia delle foibe nel mare magnum dell’antifascismo, promuovendo la figura del partigiano infoibato. La solita falsificazione della storia che sembra rafforzarsi al passare del tempo.
In realtà la vicenda delle foibe precipita e deriva dal contesto balcanico più che dallo scontro tra fascisti e comunisti. Un territorio nel quale nacquero molti imperatori romani a cominciare da Costantino il Grande (nato nella serba Niš, come Constanzo Chloro e Costanzo III) per proseguire con Giustiniano I nato nel villaggio macedone di Zelenikovo; con Graziano, Marco Aurelio Probo, Decio Traiano, Massimiano, Costanzo II e III nati nella serba Sremska Mitrovica; Massimino Daia nella serba Gamzigrad e Gioviano a Belgrado. Senza scordare i fratelli Flavio Valentiniano e Flavio Giulio Valente nati nella croata Vinkovci, Claudio Gotico e Giulio Nepote nati in Dalmazia. Cosa distinse i Balcani, ma anche il Nordafrica (dove nacquero 7 imperatori) ed il Medioriente ( dove ne nacquero 82) dalla romanità, più che l’invasione barbara, fu quella musulmana.
Nello scontro tra potenze europee, il lento ritiro ottomano da Balcani e Grecia, lasciò popolazioni contrarie all’Occidente, abituate al melting pot dei vasti territori imperiali senza le chiusure degli Stati nazione. Al nord, tra i balcanici, soprattutto tra i serbi, ma anche tra i croati, c‘era l’attrazione verso l’esempio italiano i cui successi erano però malvisti dai primi come quelli di un padrone peggiore. L’irredentismo italiano, nella sua fase finale fu tutto e solo nordorientale e la lotta contro il nemico tedesco si scatenò nella grande Guerra attraverso Caporetto e Vittorio Veneto, il salvataggio navale dell’esercito serbo in rotta, fino a Fiume che ne fu naturale prosecuzione con solo cambio del nemico, da tedesco ad alleato, tra Patto di Londra e Wilson. Nel nordItalia l’irredentismo proseguiva la lotta secolare di autonomia delle regioni settentrionali dall’impero tedesco; a nordest alla causa nazionale, si aggiungeva l’istanza diversa, imperiale veneziana che aveva fatto sue per secoli le coste e le isole balcaniche e orientali. Ed era questo nuovo mix che guidava la quarta ondata dello sforzo di indipendenza italiano.
Qual’era però lo sguardo balcanico su tutto ciò? Le popolazioni balcaniche capivano, con rabbia repressa ma anche rassegnazione, di essere res nullius nelle lotte italotedesche e francorusse; per i francesi della prima Italia, il Regno d’Italia del 1807, ad esempio la costa jugoslava era italiana. Uno scoppio di tale rabbia aveva originato la Grande Guerra. Poi la razzista protezione americana sulla Jugoslavia, unitasi alla russa, scavò un solco tra i regimi fascisti di Roma e Belgrado, che toccò l’apice con l’omicidio terrorista italocroato del premier francese e del sovrano jugoslavo a Marsiglia. Quando la Jugoslavia venne invasa dalle forze italo tedesche, i croati si affrettarono a costituire la loro nazione agognata, il Regno di Croazia del 1941, con re Aimone d’Aosta Tomislao II,, che non assunse mai l’incarico. Al contrario di quanto sempre raccontato, questo regno, poi Stato, godeva di stabilità e del consenso popolare. Prova ne è la ricostituzione tra ’91 e ’95 della Croazia di Tudjman, dove partito di governo, bandiere e simboli, inclusa la pulizia etnica, si sovrappongono pari pari a quelli di Pavelic. Come l’Indonesia giapponese, dunque la Croazia è uno stato cosiddetto collaborazionista sopravissuto ad oggi. Ciò che era orrore a Parigi, fu premiato a Dayton e viceversa; cosa che dipese dal ruolo di grandi vincitori rivestito da Mosca e Belgrado nel primo caso e di grandi perdenti nel secondo. Se la Russia aveva sacrificato il sangue per stroncare la Germania, la Serbia vantava l’unica Resistenza europea che aveva vinto sul campo. Nei ’90 invece la Serbia non vinse in Bosnia e successivamente nemmeno nel Kossovo, già stato italiano, nel ‘99. L’idea wilsoniana prima, comunista poi, della necessaria integrazione slava in uno stato jugoslavo scomparve improvvisamente, in quegli anni, dando vita agli stati nazionali balcanici. Tutto dipese, allora come oggi dalla forza militare.
In questa storia di lotte, di rivendicazioni e di orrori compiuti da tutti allo stesso livello, nei ’90 come nei ’40, la sconfitta italiana venne pagata al prezzo più alto dagli italiani dei territori balcanici, Prima i tedeschi ripristinarono nel ’43 i territori asburgici del Litorale adriatico (il Friuli di Udine, Gorizia, la Giulia di Trieste, Pola, Fiume oltre Lubiana), consegnando parte del Friuli ai Cosacchi. Poi gli jugoslavi, andando oltre il loro confini, occuparono Fiume, Pola, Gorizia, Trieste, rivendicandone i territori, chiamati kraina iulia. All’ombra della condanna dell’orrore nazista, ogni occupazione italiana, all’Albania al Kossovo, dalla Croazia, alla Venezia Giulia, nella propaganda comunista viene assimilata allo stragismo e alla Shoah ( dato che qui i tedeschi istallano il loro campo più meridionale, Risiera San Sabba). Tale condanna totale fa passare in second’ordine la strage di italiani, i cui primi corpi sono addirittura trovati dall’esercito tedesco nel ’43. La pulizia etnica titina uccise infoibado 15mila persone e scatenò la diaspora di mezzo milione degli italiani giulianodalmata. Per numeri simili di morti e
diasporati, Milosevic sarà considerato un criminale e non condannato solo perché morto in prigionia in Olanda. La Serbia sarà bombardata dagli alleati occidentali, con partenze dei voli dall’Italia e ostracizzata in Europa per un decennio. Il criminale Milosevic morì nel discredito, pur in mancanza di prove certe; il criminale Tito ha ricevuto nel ’69 il cavalierato di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Il giorno del ricordo svela che la pulizia etnica colpì i fascisti più facinorosi, e quelli tiepidi; colpì gli italiani indifferenti e quelli partigiani. Fu un massacro dove la colpa era la nazionalità italiana; senza l’indignazione che hanno meritato kossovari e bosniaci. Ancora però non viene assimilata per quello che è stata, la nostra terribile Shoah, l’animale, crudele soppressione oppure la fuga di ogni vita, di sesso e di generazione, di religione e di credo politico di etnia italiana, presente nei territori balcanici dai tempi degli imperatori romani. Questa Shoah italiana colpì gli italiani nel contesto dell’aggressione a tutta la Venezia Giulia, quella interna ai nostri confini (parte della provincia di Gorizia e Trieste) e quella esterna (Istria e Fiume, oggi parte di Croazia e Slovenia) e la colpì con la bestialità tipica dei conflitti balcanici. Non è un evento internazionale, è una tragedia, un orrore tutto nostro e nazionale, e così dovrebbe essere chiamato Shoà italiana. Tanto più che quegli italiani pagarono per l’incapacità militare del Paese, per l’irredentismo di un secolo, per la vittoria della Grande Guerra, per la Fiume di d’Annunzio, anche per la ricostituita Croazia. La nostra Shoah fu la condanna universale, tedesca e alleata, alla nostra storia, materializzatasi per mano jugoslava e comunista.
Prima però di ricordare la Shoah italiana, effettuata da alcuni e promossa da altri a livello internazionale, strugge il ricordo dei comportamenti interni, del tradimento italiano che in tutto o in parte rese quella tragedia ancora più terribile e orrifica. Le morti avvennero con complicità e soddisfazione della Resistenza comunista italiana che si schierò con Tito nel momento del massimo eccidio e della più grande diaspora; con il mutismo dei letterati come Pasolini che tacque di fronte all’eccidio di partigiani bianchi, fra cui il fratello, per mano rossa. Il resto della società assisté muta, senza un gesto, senza una protezione, al ludibrio di un popolo cacciato e diasprato, assimilato al’antisemitismo ed al nazismo. E non consola ricordare che anche nella Shoah, ci furono ebrei aguzzini di altri ebrei. La Resistenza rossa e la sinistra italiana porta indelebile su di sé questo marchio d‘infamia, di orrore commesso verso i connazionali. Pratica imparata nell’esilio russo dove la delazione dei comunisti italiani verso i connazionali destinati al gulag era pratica corrente. L’infamia poi con il premio del ’69 a Tito si è allargata a tutta l’Italia.
Il tempo del ricordo è anche il tempo dell’ammenda. E’ il tempo della ricostruzione storica realistica e della ricomposizione dei fatti nel loro equilibrio. In tempo di guerra non si può sovraccaricare le colpe degli uni e scagionare quelle degli altri. La storia successiva balcanica dimostra quanto fossero pretestuose le retoriche e le ricostruzioni degli anni passati. Gli italiani del Nordest che hanno fatto la nostra storia contemporanea non sono stati più colpevoli di altri nel conflitto bellico. E sono state vittime della bestialità che si è nascosta dietro la condanna universale di fatti di cui quelle vittime non erano state autrici. Con il tempo il ricordo del 27 gennaio del nostro Olocausto, della Shoà italiana, dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. stigmatizzerà in parte i miti falsi e bugiardi su cui si continua a torto a cercare di fondare la nascita della Repubblica.

Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.