Lo spettacolo confida in Google

Cultura e spettacolo RomaPost

Proteste, occupazioni, siti-in, flashmob. I lavoratori dello spettacolo (e relativo service) si sono mobilitati dopo un anno di fermo e fame letterale, con i sindacati, gli studenti e gli aficionados della cultura in primis il ministro Franceschini, sempre a figurante protestatario, lui che dovrebbe stare nel mirino delle rivendicazioni. Fra piazza Gigli, Teatro dell’Opera di Roma, e via Mascagni a Porta Venezia, ex cinema milanese Arti occupato, dalla bolognese piazza san Giuseppe, Teatro Arena del Sole al teatro Mercadante di Napoli, in 21 città italiane qualche centinaio di manifestanti ha chiesto Sostegno e rispetto. Vale a dire, diritto di campare con ristori, ammortizzatori, casse integrazione, magari anticipi sui Recovery. Non poteva mancare l’auspicio ai livelli minimi essenziali economici per la cultura dovunque, comunque a chiunque. Un incrocio tra l’antico attore impiegato pubblico ed un nuovo moderno reddito di palco.

Un tempo era così, tra stato, enti, partecipazioni statali e partiti, la gran massa dei lavoratori dell’intrattenimento era parapubblico impiego sicuro. Nei ’90 si tagliò tutto (e uno dei pochi recuperi è stata due anni fa, Cinecittà, tornata ministeriale dopo trent’anni di sofferenze abetiane). Si disse che non era più tempo di sprechi; ma visto il gigantesco debito pubblico successivo, si poteva anche buttare ancora qualcosa anche per lo spettacolo, tanto non avrebbe fatto differenza. Il popolo però non ha mai avuto molta pietà. Non è chiaro perché, ma lo spettacolo ha sempre messo in scena le opinioni di un 10% della gente. Ci sarà un motivo se l’Argentina ha in cartellone sempre Brecht senza arrossire. Satira di regime, solo apparentemente dissacrante, lo spettacolo ha sempre avuto malcelato disgusto per il suo reticolo territoriale più redditizio e rappresentativo, quello delle discoteche. Difficile chiedere alla gente altri sforzi; sulla schiena popolare la cultura pesa di già e tanto, con l’istruzione, l’università, le biblioteche, le sovrintendenze, i musei pubblici e parapubblici, finanziamenti vari. Poi i conti dello Spettacolo di stato restano esclusi, sopravvivente pubblico impiego dello show, Rai  (negli ultimi anni cresciuta di 2mila unità a 13 mila dipendenti), fondazioni lirico sinfoniche e pochi enti teatrali).

Nel ’19 la direttrice di statistiche Istat, Buratta, (chissà perché non il Mibact?) ha illustrato alla VII commissione parlamentare le sorti del ca. 1% degli occupati, impiegati, si fa per dire, nello spettacolo. La loro stragrande maggioranza ha solo l’hobby dello show; ci guadagna tra i 3 e i 5mila euro con poco più di 100 giorni l’anno di attività in multidatorialità (come gli edili). E’ un mondo strano; 400mila mini rapporti di lavoro, più di 250mila versano (mini) contributi pensionistici, mai utilizzabili; in 200mila vengono suddivisi in dieci classi Ateco e 40 professioni CP2001. Gli skillati dello spettacolo ed il service (non spettacolo) necessario per le scene convivono in due grandi classi, la cui paga oraria comune sta a 10 euro l’ora. Con tutti i limiti di quanto sopra esposto, ci sono escono 46mila, se non professionisti, grandi appassionati dell’intrattenimento; 23mila impegnati nella trasmissione e 73mila professionisti di musica e di cinetv; tutti concentrati in poche grani città e Cologno Monzese, sottorappresentati nel Mezzogiorno (14%) anche se bisogna notare che mancano i dati della camorra.

Un quadro così finisce quasi per depennare i nostri dalle consuete analisi del mercato del lavoro. Difficile distribuire i consueti sostegni sociali. Il Covid, come per tante realtà, ha disastrato il settore, basato sulla socialità e sulla partecipazione del pubblico. Non è però che prima andasse tanto meglio. Si occupano le sale cinematografiche perché da tempo queste chiudono; e non chiudono per l’onerosità dei biglietti (che non costano poco) e nemmeno per le regole, un tempo inesistenti, imposte al pubblico e nemmeno per carenza di pubblico. Prima del Covid l’ascolto di musica e la visione di clip musicali, film, serie web e televisive era aumentata vertiginosamente; dopo il Covid esponenzialmente. Nelle famiglie, per scelta autonoma, si ascoltano una decina di canzoni e concerti al giorno e si guardano tre film di media. E’ il trionfo dello spettacolo on demand, remoto e delocalizzato.

Il mondo dello spettacolo, timoroso che la sua parcellizzazione renda difficoltosi i ristori, vuole tornare all’antica normalità. Giù è stesa una 50ina di protocolli di associazioni e organizzazioni dello spettacolo e del Mibact, per garantire al pubblico un ritorno sicuro nelle sale di teatri e cinema con presenze contingentate, biglietti digitali nominativi, circuiti chiusi, distanziamento, sanificazione, flussi in entrata e uscita ed uso delle mascherine. Regole che non possono che scoraggiare l’utenza già disturbata da quelle precedenti. L’idea di sviluppare la fruizione digitale dello spettacolo non è invece presa molto in considerazione. I tentativi precedenti hanno deluso. La trasmissione in diretta nelle sale  di spettacoli on line da Parigi, Londra, Milano, poco pubblicizzata, limitata al mercoledì, ha visto un pubblico sparuto. Il Teatro Massimo di Palermo e quello di Catania, il Teatro San Carlo di Napoli e il Teatro dell’Opera di Roma, il Teatro alla Scala ed il Teatro Carlo Felice di Genova, e poi quelli di Novara, dell’Emilia Romagna, del  Veneto, fino alla Concert Hall di Sacile, tutti hanno la propria webtv e\o lo streaming e tutti offrono giornalmente concerti e spettacoli di qualità anche via YouTube, Facebook, Twitter, Instagram. Lo fa la gigantesca europea OperaVision con produzioni streaming ed on demand dai grandi teatri continentali; e lo fa anche la Rai (RaiPlay e Rai5) con la lirica, ma non con musica e teatro. E lo fanno tutti gratis. Tranne h24 SKY Classica, Ticketmaster ed il piccolo circuito senese tra il Supercinema Monteroni D’Arbia ed il Teatro di Anghiari, che si fanno pagare.

Inutile qui ricordare i vantaggi straripanti digitali per il fruitore. Comodità dei tempi e modi di fruizione (che malgrado la possibilità, difficilmente sarà collettiva o di community). l’alta definizione, la visuale unica a scelta da molteplici possibili angolazioni sugli attori; la completezza del richiamo multimediale documentale esplicativo e fantasyzzato, l’opportunità di traduzioni e sottotitolature in molteplici lingue (cose che vengono fatte gratuitamente sui siti pirata on i film stranieri);  costi convenienti. La presenza ormai è inseguita solo dal circolo ristretto vip che si specchia in se stesso ed attende poi i racconti leggenda del gossip; e dai turisti, quando torneranno. Lo spettacolo non è più nemmeno occasione di raccolta di popolo contestatore. La scelta governativa dei Grillo e Celestini ha ucciso anche quella via.

Lo spettacolo marcia massivamente sul digitale, re del consumo culturale globale. L’utente, dopo decine di migliaia di messaggi, post, canzoni, spezzoni di show e calcio, infinite pubblicità, almeno un film, non ha più spazio in testa per lo spettacolo dal vivo. Per convincere l’utente a scomodarsi dal vivo, bisognerà blandirlo in un’offerta allettante, comoda, personale che esalti e non deprima vizi e gusti personali. Come nell’arcaico piatto pieno del satura lanx. Lo spettacolo si sente implicitamente estraneo ed escluso dal digitale perché pretende di mantenere le sue regole, le sue difficoltà, i suoi burocratismi, che il digitale, consumer centric, spazza via.  Le frasi fatte franceschiane sulla Rai che si sarebbe trasformata in Netflix, come prima doveva in Youtube, all’ombra della deludente Raiplay, ammettono l’incomprensione dell’essenza business della filiera del digitale, che non è nata come opera pia. La gratuità non decreta il successo dello spettacolo digitale; anzi ne svaluta la qualità, ne rende sciatta e  farraginosa la navigazione, trascura l’isolamento dei produttori degli eventi. Dall’incomprensione scaturisce la richiesta dello spettacolo di asfittico protezionismo, oggi per il Covid e domani, senza virus, pure.

L’enorme quantità e qualità di offerta culturale, proveniente da un paese dalla fama mondiale indiscussa a riguardo, giace a terra come un mosaico spaccato in mille pezzi. Non c’è produzione industriale, non c’è offerta divulgata, non c’è l’investimento industriale necessario. Tutti i prodotti dello show dovrebbero essere venduti all’emittente centrale che li divulga worldwide. La Rai, però, con decine di migliaia di talk, di cuochi, di foche monache, con migliaia di addetti non riesce a costruire una martellante distribuzione  digitale interna ed internazionale, organizzata di milioni di prodotti già esistenti. E questa distribuzione è l’unica via di sviluppo se non di esistenza. Lo spettacolo del futuro sarà digitale, oppure non sarà. Forse però il nostro management che mette un Rutelli a capo dell’Anica non è capace. Altre ipotesi farebbero rinascere polemiche sopite. Non ci resta che chiamare Google a via Mazzini.

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