Corrado Ocone “Idee (liberali) per il cantiere Europa”

Attualità

Da qualche giorno nel dibattito politico-culturale è maturata l’idea che uno dei motivi, forse il principale, dei ritardi dell’Unione Europea nelle vaccinazioni sia dovuto alla differenza culturale, cioè di mentalità, che intercorre fra popoli “pragmatici”, sostanzialmente quelli di Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele, e popoli “giuridici”, cioè attenti più al rispetto delle procedure che non ai risultati, quali quelli dell’Europa continentale.

Fa piacere pensare che i popoli anglosassoni conservino un po’ del loro atavico pragmatismo, e che soprattutto esso abbia giocato in ruolo in questo frangente drammatico. Ho però l’impressione che, tutto sommato, la mentalità razionalistica, che è la cifra dell’età moderna, con i suoi connotati ingegneristico-sociali e costruttivisti (dirigisti e statalisti se preferite), abbia ormai un predominio incontrastato in tutto il mondo occidentale.

E che spesso sia proprio il “razionalismo in politica”, come lo chiamava Michael Oakeschott, a tarparci le ali e a segnare la crisi o declino dell’Occidente, complessivamente considerato. Proprio su questo elemento andrebbe perciò improntata la critica all’Unione Europea, che a questa mentalità, forse anche per un deficit di democrazia (e politica), si è finora richiamata in maniera esorbitante.

Contemporaneamente, di tale critica occorrerebbe mettere in luce l’elemento positivo e non distruttivo: proprio perché si è europeisti e si ama la nostra terra e si crede nei nostri valori, è necessario che l’Unione Europea si rafforzi e possa giocare un ruolo confacente alla propria storia nel mondo globale. Solo che, in maniera forse controintuitiva, il rafforzamento può avvenire solo nella misura in cui essa non accentri troppo il potere.

Bisogna allora compiere una sorta di “rivoluzione copernicana” nel nostro modo di ragionare, uscire dal sentiero generalmente battuto da coloro che credono come noi nell’Europa. Il ragionamento canonico suona suppergiù così: l’Unione fa flop, sui vaccini o su altro, perché è poco unione, perché in essa gli Stati nazionali contano ancora troppo e non delegano al centro più poteri.

Tutte le volte che è possibile, allora, bisogna che, con un atto più o meno “arbitrario”, di forza, la Commissione avochi a sé le decisioni, agisca in nome di tutti gli Stati membri. Proprio come è stato nel caso dei vaccini. Ora, se è vero che è fondamentale l’unione delle forze in alcuni settori (per esempio la difesa e in genere il modo di porsi come una sola “voce” verso l’esterno), è altrettanto vero che in molti casi l’efficienza e la rapidità di decisione sono inversamente proporzionali alla centralizzazione del potere.

Perché allora ragionare in un’ottica centralistica e non limitarsi semplicemente a coordinare le azioni degli Stati, che hanno più agilità, casomai compensando eventuali deficit decisionali di alcuni di loro. La concorrenza interna fra popoli, stati, territori, è necessariamente da evitare; oppure, come la nostra storia dimostra, può essere una risorsa da valorizzare per poi giocare tutti insieme  all’esterno le sue risultanze?

E il principio di sussidiarietà, quello che suggerisce di delegare al più grande solo ciò che il piccolo non può risolvere o risolve peggio, è proprio un ferro vecchio arrugginito da buttare, come in molti pensano?

Da liberale, preferisco sempre ragionare trovando la soluzione che dal basso va verso l’alto, e non viceversa. E la storia mi dice che spesso questo modo di ragionare è quello che più e meglio garantisce libertà e democrazia, cioè i principi che ci stanno a cuore.

Con Mario Draghi, l’Italia ha fatto molti passi avanti, e ha anche chiarito a sé e all’Europa quali sono i valori europei e perché non si possa non essere atlantisti ed europeisti. Non si può strizzare gli occhi alle autocrazie: cinesi, russe o checchessia. Questo deve essere il perimetro. Ugualmente però andrebbe chiesto a Draghi di non comprimere il dibattito dando per acquisito il modello di governance europea che si è affermato dopo Maastricht.

Se l’Europa è un work in progress, un “cantiere aperto”, in vista del fine è necessario che si ragioni su tutto e senza pregiudizi. Anche sulla direzione migliore per raggiungere quel fine.

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