Sì, ci vorrebbe Einaudi

Attualità

Confidiamo sia ormai un dato acquisito che celebrare la ricorrenza di uno statista, ha senso solo se, invece di descrivere quanto ha fatto da vivo, ci si sforza di applicare i suoi principi nella realtà di oggi.

Noi liberali intendiamo farlo con Einaudi, scomparso a fine ottobre del ’61 all’età di 87 anni e mezzo, è stato un uomo di altissimo rilievo in vari campi, studi economici, cariche istituzionali, informazione. Con un unico filo conduttore: che il fulcro della vita di uno Stato è la libertà del cittadino, principalmente come indipendenza attiva nell’operare.

Convinti di tale metodo, ricordiamo cosa fece Einaudi prima di essere eletto presidente della Repubblica. L’essenza della sua linea economica si ricava dal testo che predispose per il quarto comma dell’art. 81 della Costituzione: “Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.

Con queste poche parole espresse il tipico concetto liberale che le questioni economiche richiedono rigore nel compiere gli atti dinamici, che attengono al futuro. E sono parole e concetto opposti a quelle della riforma del pareggio di bilancio introdotte nel 2012, all’epoca del governo Monti, in succube ossequio alla rigida politica dell’austerità inefficace e pericolosa per la democrazia.

Quando subito dopo divenne ministro del Bilancio, Einaudi fu coerente e applicò la propria convinzione sperimentale secondo cui la funzione delle istituzioni non può svolgersi mediante il protezionismo, perché non attiva la diffusa libera iniziativa individuale nei rapporti economici.

Nei mesi precedenti, al fine di ripristinare il mercato, aveva liberalizzato l’impiego in Italia della valuta ottenuta dagli esportatori con le vendite all’estero. E nel settembre 1947 (quando era da poco più di tre mesi Vice Presidente del Consiglio, Ministro del Bilancio) applicò subito la sua convinzione in una serie di atti di intervento della mano pubblica dello Stato per bloccare l’inflazione che era divenuta galoppante.

Queste scelte avviarono in pochi mesi il risanamento indispensabile per porre il mercato in grado di utilizzare gli aiuti del piano Marshall. In pratica era la fornitura gratuita da parte Usa (400 miliardi di lire dell’epoca) di frumento, di carbone, di combustibili liquidi e di quelle altre materie prime necessarie che l’Italia non era in grado di pagare con le sue esportazioni. In questo modo, Einaudi e il governo scelsero due linee precise. La linea di confermare l’adesione al modello di vita occidentale fautore della libertà del cittadino di esprimersi, di consumare, di accedere ai beni. E l’altra linea di mettere in moto l’economia, modernizzandola.

In un’intervista Einaudi disse che l’utilizzo dei contributi lo deciderà “il popolo italiano, ma esso dovrà necessariamente servire a opere di ricostruzione, ripristino delle ferrovie, dei porti, continuazione delle bonifiche delle strade, potenziamento e rinnovamento degli impianti industriali”.

Einaudi effettuò così un tipico intervento pubblico non liberista, fondato su una cornice istituzionale adeguata ad utilizzare gli spiriti imprenditoriali dei liberi cittadini nel rispetto del Parlamento rappresentativo. Dal ’47 al ’53 la crescita  del reddito nazionale fu del 58%, ossia del 9,6 all’anno. Una crescita del genere, spalmata nei singoli anni e con bassa inflazione, è un primato tuttora esistente e non solo per l’Italia.

Al giorno d’oggi, in altre condizioni storiche, andrebbe seguito a Roma e a Bruxelles, un metodo analogo per gestire il Recovery Plan attivato dall’UE . A Roma, invece, ogni giorno è più chiaro che, al di là del metodo di rigore unito alla politica aperta che pratica il presidente del Consiglio, la struttura burocratica del paese non ha una mentalità dinamica capace di eseguire i propri compiti con professionalità nell’obiettivo di suscitare l’intraprendere dei cittadini.

La  cultura è quella del distribuire assistenza e del confondere il fine delle regole (il convivere tra diversi) con l’imporre stili di vita ai cittadini e con privilegiare l’impiego pubblico anche quando non ne esiste il motivo. Da qui la scarsa capacità e i ritardi nell’affrontare le condizioni eccezionali in cui il Covid-19 stringe l’Italia da un anno abbondante.

In generale, il problema è l’esser restii ad accettare la necessità di adattare la vita quotidiana alle indicazioni dei dati rilevati dalla scienza nell’andamento pandemico. Oppure il non saper distinguere il ruolo delle autonomie (essenziale in tempi ordinari) dal riconoscere l’irrinunciabile ruolo del governo nazionale nel dirigere le questioni generali della Sanità e della salute degli italiani, in epoca di pandemia, e  nel fissare livelli minimi di efficienza della sanità pubblica con cui curare il cittadino.

Oppure l’incapacità di accettare che gli assembramenti non stanno nella didattica in presenza nelle aule delle elementari, bensì nel complesso di atti necessari per fare arrivare gli studenti nelle aule (ma gli Enti Locali e delle Regioni, per proteggere le proprie reti abituali, non hanno voluto far pieno ricorso ai mezzi di trasporto turistico inutilizzati dai privati). Oppure, l’incapacità di abbandonare i ritmi di lavoro ordinario e quindi non capire come, nella lotta al Covid-19, fosse ineludibile predisporre con urgenza il Piano Sanitario Nazionale che invece non c’è ancora oggi.

Questo a Roma: nel complesso latita la cultura liberale einaudiana, che occorre rapidamente riscoprire. Peraltro Bruxelles non sta molto meglio. Più precisamente, l’anno del Covid-19 ha posto in rilievo due aspetti tra loro assai contraddittori. Il primo è stato molto positivo nel campo del costruire l’UE. Abbandonando il principio dell’austerità – che non poteva funzionare e non ha funzionato, in quanto trascura l’intraprendere dei cittadini – l’UE ha ripreso il criterio dell’origine  di focalizzarsi sulla vita quotidiana degli europei, decidendo pertanto di creare un fondo molto consistente per fronteggiare la pandemia sanitaria mettendo a disposizione a ogni membro quantità finanziarie adeguate (il Recovery Plan).

È stato, in uno spirito einaudiano, un chiaro passo avanti nel processo di costruzione dell’UE, che per natura richiede tempo. Tale decisione non era scontata ed è stata un successo della presidente Von derLeyen, voluta nell’estate ’19 da  popolari, socialisti, liberali e in più dai 14 voti determinanti del gruppo M5S. Per di più, una decisione che ha imboccato di fatto la via di procedere all’emissione di euro bond garantiti direttamente dall’Europa.

Il secondo aspetto, invece, è sotto gli occhi di tutti e prova che nella UE ci sono cure da fare alla svelta. Parliamo della vicenda dei ritardi e degli errori negli approvvigionamenti dei vaccini. È vero che la sanità non rientra nelle competenze dei Trattati UE. Ma è evidente che, avendo deciso il Recovery Plan sotto il profilo economico, si apriva il capitolo della competenza della Commissione sulla sanità (del resto espressamente accettata dagli Stati membri negli ultimi mesi).

In questo contesto, va allora rilevato che gli sbagli nelle trattative con le case farmaceutiche, in specie AstraZeneca, non sono un mero errore di tecnica giuridica, bensì esprimono una grave mancanza di prospettiva politica e culturale. In atre parole, le strutture UE, reimmergendosi nella logica dell’austerità, si sono focalizzate solo sullo spuntare per le forniture dei vaccini il prezzo più basso possibile (oltretutto senza effettuare ordini precisi e dunque esponendosi a farsi soffiare il posto da altri, per esempio il Cile); e, di fronte al dilagante Covid-19, non si sono poste il problema ben più essenziale, quello di effettuare investimenti per non dipendere dall’India (che produce ingredienti chiave per i vaccini e li blocca a piacere) e di innovare per avere un vaccino del tutto europeo.

Cosa possibile stanti le dimensioni delle industrie farmaceutiche UE, sulle quali però l’UE non ha investito (come hanno fatto la Gran Bretagna non più UE e i tre grandi Cina, Usa e Russia ). Del resto non è un caso se non c’è un’azienda UE fra le prime diciotto imprese tecnologiche per fatturato. Insomma, l’UE ha per struttura bisogno di tempo per maturare. Ma la pandemia ha reso molto più rapido il ritmo degli avvenimenti.

E dunque oggi l’UE e i suoi cittadini devono sempre più rifarsi all’insegnamento di Einaudi operando veloci per modernizzare l’attività economica collaborando all’insegna della ricerca e della diversità delle proprie culture. Negare la realtà e il continuo cambiamento che induce, deve restare una tipologia nazionalistica estranea al mondo dell’UE.

Blog Pietro Paganini

Professor at Temple University of Philadelphia; John Cabot University

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