di Carmelo Calabrò
Cesare Pavese è stato, e continua a essere, presso le nuove generazioni uno degli autori italiani più annoverati e amati della nostra letteratura del Novecento.
Uno straordinario narratore e un grande poeta. Ma anche un uomo dalla personalità fragile, segnato da solitudine e drammi intimi, in senso “tragico” che hanno lacerato la sua esistenza.
Forse la vita dello scrittore piemontese è stata il suo peggior romanzo, piena di tormenti, di dubbi e di amori passionali mai iniziati o finiti male, di travagliate crisi spirituali e di pessimismi spesso ingiustificati. Ma seguiamo ora passo dopo passo, i vari momenti della vita dello scrittore, e poeta, un personaggio singolare e dal destino avverso.
Cesare Pavese nacque il 9 settembre 1908 nella cascina di San Sebastiano a Santo Stefano Belbo, paesino in provincia di Cuneo.Nel 1914, quando Pavese era ancora bambino, morì il padre Eugenio, (che era un cancelliere al Palazzo di Giustizia del capoluogo piemontese)stroncato da una morte precoce. La morte del padre sarà la causa del primo forte dolore che inciderà sull’indole del ragazzo, già per natura introverso e taciturno.
Gli accenni agli anni dell’infanzia di Pavese sono pochissimi e rapidi. A Torino il ragazzo, dopo la scuola elementare, frequentò le scuole medie, e poi si iscrisse al liceo classico “Cavour”. Già nel periodo ginnasiale iniziò ad appassionarsi alla letteratura. In quel periodo risalgono, poco più che esercitazioni, alcune poesie e liriche in un tardo romanticismo adolescenziale. Nel 1926 conseguita la maturità liceale, Pavese si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, dove il 20 giugno del 1930 si laureò discutendo la tesi di laurea “Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman” con Ferdinando Neri.
Negli anni successivi iniziò a scrivere racconti e saggi critici e incominciò a leggere soprattutto poeti e scrittori inglesi e statunitensi, Lewis, Anderson, Hemingway, Lee Masters, Melville, iniziando l’attività di traduttore.
Naturalmente Pavese, in quegli anni, sognava e sperava di andare negli Stati Uniti, per uno sbocco di carriera, ma i tentativi di ottenere una borsa di studio alla Columbia University fallirono ben presto, e in oltre Oceano non si recherà mai, neppure terminata l’era fascista e bellica.
Nel 1931 morì la madre, Fiorentina Consolina Mesturini. Un altro solco doloroso nella già triste esistenza di Cesare, che divenne ancor più solitario.
Negli anni successivi Pavese, che aveva una rigorosa conoscenza della letteratura classica straniera, una esemplarità americana, che costituì il suo punto di partenza e un riferimento per anni costante, iniziò a pubblicare liriche e traduzioni di saggi di scrittori americani e inglesi.
Pavese aveva già in quegli anni dentro di sé, le armi letterarie e la movenza poetica per il suo raccontare, quelle armi che riusciranno per quasi un trentennio a dargli un’intensa produzione intellettuale, arricchendola sempre di nuove prospettive narrative.
Per guadagnare, Pavese affiancò al suo lavoro di traduttore quello delle supplenze scolastiche al liceo D’Azeglio di Torino, e anche di attività di insegnamento nelle scuole serali.
Verso la fine del 1934 nacque per Cesare Pavese una profonda passione per una donna, detta Tina, (all’anagrafe Battistina Pizzardo), una donna dalla “voce rauca”, conosciuta durante una gita sul Po, già arrestata nel 1927 e condannata a un anno di reclusione dal Tribunale Speciale, e a tre ammonizioni per aver aderito ad attività antifascista.
La donna, che aveva qualche anno più di Pavese, sembrava attratta da quell’uomo intellettuale, non privo di avvenenza e galanteria, che le chiese implorante, in ginocchio, di volerlo sposare; Tina rimase stordita dalla dichiarazione, ma poi decise di respingerlo, con un secco rifiuto.
Ma il timido Pavese non si rassegnò, e non prese le debite distanze, ma continuò a frequentarla. Un’imprudenza e un’imperdonabile leggerezza. che fece insospettire la polizia fascista.
Cosicché, Pavese, sospettato di frequentare un gruppo di intellettuali torinesi, antifascisti, per tali ragioni, dopo una perquisizione ( la polizia trovò in casa una lettera di Altiero Spinelli, un comunista, detenuto a Roma per motivi politici) venne arrestato insieme ad amici e altri collaboratori.
Dopo alcuni mesi di detenzione, alle carceri Nuove, a Torino e a Regina Coeli a Roma, Pavese fu processato e condannato a tre anni di confino in Calabria, a Brancaleone, in un piccolo paesino, dove arrivò, la domenica pomeriggio del 4 agosto 1935, in manette, e scortato da due carabinieri.
L’esperienza del confino ispirò allo scrittore piemontese il breve romanzo “Il Carcere”, un racconto fortemente nutrito di elementi autobiografici, che ripercorreva narrativamente per certi versi la sua vita angosciata da confinato.
Pavese lascerà a lungo inedito questo romanzo, per poi pubblicarlo solo nel 1948, con “La casa in collina”.
I tre anni di confino, inflittogli dal regime fascista nel 1935, si ridurranno, in realtà, a meno di uno scontato a Brancaleone: la sua buona condotta e il precario stato di salute (Pavese è tormentato da una forte asma bronchiale) danno esito positivo alla richiesta di grazia avanzata a Benito Mussolini.
Al ritorno ritrovò “Tina”, che stava con un altro uomo e che nel frattempo si stava per sposare con l’ingegnere Henek Rieser, un ebreo polacco di fede comunista.
Allorché Pavese, angosciato e toccato in profondità del cuore, per il dispiacere amoroso della Pizzardo, precipitò in una cupa depressione, dove maturò in lui l’ossessivo del gesto del suicidio.
A salvarlo, da “quel vizio assurdo” di suicidarsi, questa frustante ostinazione, fu forse, l’attività letteraria ed editoriale quasi frenetica e martellante (forse l’unico modo che conosceva per sentirsi vivere) che, nei decenni successivi, gli fece conquistare vette appaganti con la pubblicazione nel 1941 dell’opera di “Paesi tuoi”, un testo che cattura e avvince, e che non solo rivelò Pavese narratore, ma fissò la nascita del neorealismo, di cui fu maestro e divulgatore. Proprio per questo Pavese fu considerato, con Elio Vittorini, uno dei precursori del neorealismo.
Dal dicembre del 1943 fino alla Liberazione dell’aprile del 1945, Pavese fu poi ospite dei padri Somaschi nel collegio Treviso di Casale Monferrato (Alessandria), dove scrisse e dette ripetizioni di latino e greco ai ragazzi.
Finita la guerra Pavese, si recò a Roma per ragioni di lavoro, dove rimase fino alla seconda metà del 1946, per poi ritornare Torino per riprendere a lavorare alle sue opere letterarie.
L’ aspirazione narrativa di Cesare Pavese, fu poi avvalorata con gli anni dai continui successi editoriali (La luna e i falò; Dialoghi con Leucò; Il Compagno; Il mestiere di vivere; Verrà la morte e avrà i tuoi occhi; Prima che il gallo canti) miti pavesiani di letteratura, che gli procurarono, tra l’altro amicizie e occasioni d’incontro sentimentali, in salotti mondani. Pavese si illudeva di trovare la mai sopita speranza di un fatale innamoramento.
Molto inchiostro è stato versato sugli incidenti della vita sentimentale di Cesare Pavese. Dal triste episodio della donna della “voce rauca” alle altre donne, che poi di volta in volta, sono subentrate nella vita dello scrittore piemontese. Disavventure sentimentali di cui si sa pochissimo, ma dove Pavese, ha sempre amato, in amori mai corrisposti.
Nel 1949, dopo essere stato per un brevissimo tempo a Milano, Pavese decise di trasferirsi nuovamente a Roma, per ragioni editoriali.
Il soggiorno romano, fu segnato però da un’altra delusione, l’ultimo amore infelice, per lo scrittore di successo.
Verso la fine del 1949, Pavese, conobbe a Roma, a casa di amici una giovane attrice americana, Costance Dowling, giunta a Roma
con la sorella Doris, che aveva recitato nel film “Riso Amaro”(film del 1949, diretto da Giuseppe De Santis) con gli attori Silvana Mangano, Vittorio Gasmann e Raf Vallone.
Cesare Pavese in quella occasione fu colpito e affascinato dalla accesa sensualità di Costance e se ne innamorò subito. Ma purtroppo, come era già accaduto con la donna dalla “voce rauca” anche l’attrice americana, dalla bellezza procace, lo abbandonò presto, per tornare negli Stati Uniti promettendo di scrivere, invece non si fece più viva.
Quell’abbandono, da parte dell’americana bionda, (alla quale dedicherà la raccolta di poesie scritte dall’11 marzo al 10 aprile 1950“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, pubblicato postumo nel 1951) fu per Pavese un triste cedimento esistenziale, un proprio fallimento di un amore non corrisposto.
Questo fu, l’ultimo anello, di una catena di incomprensioni e di sconfitte scivolose, che avevano purtroppo costellato la sua intera vita.
Dopo quel periodo inquieto, sotto il peso della solitudine, Pavese, si traferì al suo paese natale, il mondo felice della sua infanzia, a cui era rimasto sempre legato, tra le colline delle langhe torinesi, dove con la collaborazione di vecchio amico, lavorò dritto e sodo, alla ricerca dei nuovi personaggi de “La luna e i falò” che poi uscirà nel 1950, anno in cui egli conseguirà il premio Strega per “La bella estate”.
Sempre nel 1950 Pavese entrò a far parte della nuova rivista “Cultura e Realtà” e poi tornò agli inizi dell’estate, alla poesia, per comporre sempre, tacitamente, i suoi ultimi versi.
Ma quell’estate fu fatale per Pavese.
La sera del 27 agosto 1950 un cameriere di uno dei più noti alberghi di Torino – Hotel Roma- situato sotto i portici di piazza Carlo Felice, nelle vicinanze della stazione di Porta Nuova, trovò nella stanza dell’albergo il corpo senza vita di Cesare Pavese (che l’ aveva occupata il giorno prima) disteso sul letto senza la giacca e le scarpe. Una mano sul petto e l’altra a penzoloni. Cesare sembrava dormire. Ma non c’era più nulla da fare. Sulla mensola del lavabo, mute testimoni del folle gesto, le bustine di sonnifero, ingoiate dalla scrittore in un momento di sconforto, per darsi al sonno eterno; e sul comodino una copia dei “Dialoghi con Leucò”, dove sulla prima pagina vi era un’annotazione dello scrittore in forma spicciola “ Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppo pettegolezzi”. Qualche giorno dopo si svolsero i funerali.
Pavese, resta ancora oggi, uno scrittore sempre più europeo, uno scrittore, che trae forza dalle sue stesse contraddizioni, che ci ha lasciato nella struttura narrativa pagine di straordinario valore letterario ed umano. Su Cesare Pavese, sono usciti molti libri, saggi biografici, opere e esperienze letterarie, che hanno ispirato lavori cinematografici e che non mancano mai di stupirci.
Avvincente la narrazione di Carmelo Calabro’,sulla figura poetica e tragica di Cesare Pavese
Da notare ,che Carmelo Calabro’ e’ originario di Brancaleone,lo stesso paese in cui Pavese fu condannato al confino!