Dalla prossima settimana, verosimilmente, spariranno le zone rosse e il Paese potrà avviarsi verso la tanto agognata “normalità”.
Il calendario stilato dal Comitato tecnico scientifico prevede, infatti, anche la riapertura di palestre e piscine, oltre alla ripresa delle attività fieristiche ed espositive.
La campagna vaccinale, poi, prosegue senza particolari intoppi con buoni risultati.
In questo quadro positivo non si possono, però, sottacere i tanti (troppi) errori che sono stati commessi negli ultimi mesi.
Lo scoppio della pandemia ha trovato il Paese sostanzialmente impreparato a fronteggiare una emergenza di simili proporzioni.
Un virus subdolo, il Covid-19, e di cui non si aveva avuto contezza prima di allora, ha generato il panico fra la gente mettendo immediatamente in crisi il servizio sanitario nazionale.
Tralasciando la pessima qualità della comunicazione da parte dei media finalizzata solo a generare ulteriore allarme e non a fornire una corretta informazione (come dimenticare i virologi, categoria ignota ai più fino a quel momento, che passavano il tempo a litigare fra loro nei talk show televisivi?), dopo le prime durissime settimane era ormai chiaro quali fossero le modalità di trasmissione del contagio e le possibili terapie.
Su questo passaggio cruciale si segna la grande sconfitta della lotta al Covid.
Per mesi l’unico punto di riferimento è stato l’ospedale. Con migliaia di persone che si riversano nei pronto soccorso. Anche senza disturbi evidenti.
Il pronto soccorso e l’ospedale divenivano a loro volta dei focolai, moltiplicando i contagi. Il classico cane che si morde la coda.
Ma perché tutti si ammassavano al pronto soccorso anche quando era possibile effettuare delle cure a domicilio che, come si è visto, nella stragrande maggioranza dei casi producevano effetti benefici?
Il motivo è semplice: le riforme sanitarie che si sono susseguite negli anni hanno sempre penalizzato i medici di base a favore delle grandi strutture ospedaliere.
Senza fare polemiche su queste scelte, il risultato è che per qualsiasi problema, anche il più banale, oggi ci si reca in pronto soccorso. Un comportamento che andrebbe tenuto, invece, solo in caso di emergenza.
Dall’altro lato i medici di base sono stati subissati da una serie incredibile di incombenze burocratiche. Un carico di lavoro che esula da quello di fornire una diagnosi e una cura al malato.
A ciò si devono aggiungere piattaforme informatiche inefficienti, scambio di dati inesistente (si pensi solamente ai problemi che si hanno quando si deve rientrare al lavoro dopo un periodo di malattia), difficoltà di interlocuzione con le strutture sanitarie di riferimento.
Da dove ripartire, dunque? Da una potenziamento della medicina di base e del territorio, valorizzando il lavoro dei medici di famiglia.
La drammatica esperienza della pandemia deve lasciarci questo come insegnamento.
Nato a Roma, laureato in Giurisprudenza e Scienze Politiche,
ha ricoperto ruoli dirigenziali nella Pubblica Amministrazione.
Attualmente collabora con il Dipartimento Scienze Veterinarie e Sanità Pubblica dell’Università degli Studi di Milano. E’ autore di numerosi articoli in tema di diritto alimentare su riviste di settore. Partecipa alla realizzazione di seminari e tavole rotonde nell’ambito del One Health Approach. E’ giornalista pubblicista iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Lombardia.