Letta alla rincorsa di Fedez: #Enricotornaindietro

Attualità

Era capace di idee diverse da quelle della sinistra massimalista e manettara. Era l’uomo delle “riforme” e della “moderazione”. S’è messo a rincorrere Fedez. Ma perché?

C’è stato un tempo in cui Enrico Letta era capace di dire cose inaudite. Tipo: «Berlusconi ha il diritto di difendersi nei processi e dai processi». Che son cose che nemmeno i gaglioffi iper-garantisti oserebbero pensare, figuratevi gente che legge Repubblica e il Fatto.

Erano gli anni in cui all’enfant prodige della sinistra italiana erano riconosciute, anche da destra, qualità non comuni: intelligenza, moderazione, competenza. E, se non sempre (parola da abolire in politica), diciamo almeno spesso, la capacità di sparigliare il campo rispetto alle rigidità del pensiero della sinistra massimalista.

Bersetta e Lettani

C’è stato un tempo in cui Letta girava in tandem con Pier Luigi Bersani. Erano i due riformisti di “sinistra”, uno figlio della tradizione democratico cattolica, quella delle teste pensanti, cosmopolite – Letta ha fatto la scuola dell’obbligo a Strasburgo –, e l’altro figlio della tradizione comunista, cooperativistica, quella della sinistra pragmatica, emiliana, concreta, a tratti bonaria.

Se sui giornali di destra vedevi comparire un’intervista a uno “degli altri”, eri sicuro che fosse uno tra Letta e Bersani. Se non era Pier Luigi era Enrico, se non era Enrico era Pier Luigi. Praticamente interscambiabili, Pier Luigi Bersetta e Enrico Lettani, erano l’emblema di quella sinistra con cui si poteva parlare, magari anche costruire, sicuramente considerarsi avversari e non nemici; una sinistra lontana anni luce dallo snobismo buro-sovietico dalemiano e dall’intransigente manicheismo dossettiano prodiano.

Ha fatto il militare a Sciences Po

Per dire. Quando, da numero due del perdente-vincitore Bersani, diventò lui presidente del Consiglio, i grillini lo salutarono così: «Presidente Letta, questo governo odora di democristianità, odora di intrecci di comitati di affari quali Comunione e liberazione e la Compagnia delle opere». O: «Presidente Letta, visto il ministro dell’Interno scelto, sembra il governo della trattativa stato-mafia, il governo del bavaglio alla magistratura».

Insomma, ci siamo capiti. Letta era l’uomo che non piaceva alla sinistra giustizialista e alla sinistra-sinistra, ma piaceva (o, perlomeno, era stimato) da (più o meno) tutti gli altri. In fondo, «è un uomo di mondo: ha fatto il militare a Sciences Po» (copyright il Foglio).

Due cose doveva fare il Pd

Poi? Cosa è successo poi?

Ha scritto Marcello Veneziani:

«Letta aveva un paio di qualità che lo rendevano un po’ meglio di altri, soprattutto nel suo partito: non aveva l’arroganza sinistrese e aveva quasi la timidezza da chi ha le buone maniere, ha letto qualche libro, usa le pattine. Adesso, invece, ha capito che quelli sono impedimenti per far politica e allora s’impone di essere arrogante, perentorio, partigiano».

Forse quell’#enricostaisereno gli è rimasto sul gozzo. O forse sta vivendo a scoppio ritardato la fase 4 dell’adolescenza (opposizione). O forse ha solo fatto un calcolo politico avventato.

Sta di fatto che, da quando è diventato segretario del Pd (un ruolo che porta in sé una maledizione tanto quanto la maglia numero 9 del Milan), le ha sbagliate tutte. Il suo Pd doveva fare due cose: dare l’impressione di influenzare il governo Draghi – e si fa scippare puntualmente sul punto da Salvini – e cementare l’alleanza coi 5 stelle – che sta andando a rotoli.

Grazie Fedez

Soprattutto, da lui ci si aspettava un sussulto di idee, una gragnuola di proposte, una vendemmia di riforme. E invece? E invece s’è impegolato in discussioni sulle donne nel Pd, sullo ius soli, sul voto ai sedicenni, sul ddl Zan («grazie @Fedez»), sul coprifuoco alle 22.

Tutte questioni che vanno forte nella zona Ztl della combriccola progressista che vive su Twitter e nelle redazioni dei giornali, ma non esattamente nel resto del paese, che chiede aria, sole, ritorno al lavoro.

Di più. Come dice Luca Ricolfi, Letta non sta nemmeno provando a fare incursioni nel campo avverso per conquistare qualche voto (vedi mai), ma è tutto propenso e solo a parlare al circoletto dei suoi.

«Alla sinistra rimprovero l’iper-tutela della sua base elettorale, ossia dei garantiti, e il cinico abbandono dei non garantiti, come se questa non fosse la diseguaglianza fondamentale dell’Italia di oggi» (Ricolfi, intervista alla Verità).

Anima e cacciavite

Risultato di questa lungimirante strategia non è solo il bailamme della candidature nelle grandi città (su quello pure il centrodestra arranca), ma soprattutto il calo continuo nei sondaggi. Ora, almeno a stare a sentire quelli di Swg per La7, è stato persino superato da Fdi di Giorgia Meloni (Fdi a 19,5 – Pd a 19,2 per cento).

Dicono che il 27 maggio dovrebbe andare in libreria il suo Anima e cacciavite. Chissà se il giorno dell’uscita sarà presentato come un volume che contiene lo sturm und drang del nuovo progressismo piddino o come un memoir di quello che avrebbe potuto essere e non fu.

Emanuele Boffi (Tempi)

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