C’è un malato nella politica italiana. Non è il solo, anzi. In giro ci sono proprio degli zombie, defunti imbalsamati, come comunismo, socialismo, azionismo, sindacalismo, resistenza, su cui gusci vuoti i partiti praticano un infinito accanimento terapeutico senza nemmeno sapersi spiegare il perché. Il caso in questione è però un’araba fenice, che ci sia ognun lo dice, ma non si sa mai dove abbia parcheggiato anche se tutti i parking sembrano prenotati a suo nome. Il liberalismo è malato di gigantismo rarefatto; lo si ritrova, rivendicato e osannato, ovunque, a sinistra, a destra, al centro, in basso, in alto. La parola libertà è comparsa negli slogan e nei simboli di tutti. Eppure decine di migliaia di persone, in un innumerevole elenco di partitini, partitucci, movimenti e reti, cercano incessantemente l’isola liberale non trovata.
Nel mondo semplice di un tempo, quello dell’uomo che non si interrogava su se stesso, né per i motivi che lo invogliavano verso la donna, i liberali fondarono l’Italia. Importarono l’approccio secolare estero, adattandolo con grande moderazione. mutuato da esempi esteri, importati molto. Forgiarono il primo mezzo secolo unitario italiano, a modo loro, come un blocco parlamentare, senza essere nemmeno un partito o averne il nome. Vennero chiamati a suo tempo notabili con accento orgoglioso o con disprezzo; e coincidevano con i proprietari, con i professionisti, talvolta con gli aristocratici. Erano come un Senato romano senza il Popolo; e venne loro rinfacciata una democrazia monca senza suffragio universale. Nondimeno lo regalarono al paese, aprendo il potere ai partiti delle masse analfabete, socialisti, fascisti, cattolici. Cominciava il tramonto dei liberali perché il Popolo cancellò subito il Senato.
A scuola insegnano che liberale non sia una posizione ma solo una qualifica; come dire, non una pietanza, ma una salsa. Insegnano, con tanti di nomi esemplificativi, che si può essere liberali di destra e di sinistra; socialisti e liberali; liberali e conservatori; liberali e credenti o agnostici. Poi si è litigato sui liberali comunisti alla Rodotà; sui liberali populisti, liberali islamisti, liberali fascisti e razzisti. Che nessuno si inalberi; i fondatori degli Usa, grandi liberali, erano razzisti e schiavisti praticanti. Gobetti non era di sinistra, semplicemente sui bolscevichi aveva sognato. I postcomunisti per dirsi liberal sovrapposero Kennedy a Berlinguer. Friedman era filo Pinochet e Roosevelt stalinista. Nonostante tutto, il brand liberale mantiene un certo fascino; anche se svuotato, annichilito, tumefatto, nessuno vuole escluderlo dal piatto, anche se solo come salsa di contorno. Un liberale alleato fa sempre fino, dà un tocco di eleganza. Si tratta sempre di personcine per bene, educate, intellettualmente competenti, professorali, spesso ingenue e deboli di spirito, cui proprio la liberalità impone l’indole aperta alle opinioni altrui, l’instabilità delle posizioni, una certa transigenza decisionale ed esistenziale.
Si fecero trascinare in comportamenti biechi affamatori da commercialisti ottusi, da Sonnino a Monti, inchiodati sulla parità di bilancio. Shakerati dal fascismo nel Listone, dalla spiritualità superiore di Croce per distinguersi dal’idealismo di Gentile, dalla monarchia con Einaudi ed il nostalgico segretario Lucifero, cugino del Ministro di Real Casa, dalle partecipazioni statali nel pentapartito; riuscirono con i Gobetti, Rossi, Villabruna, Pannella a fare compagnia, come niente fosse, con bolscevichi, freaks, yuppies, destrutturazioni sociali, derisioni istituzionali e diritti di massa a go go. Dopo Mani Pulite, la diaspora: a destra, Martino e Scognamiglio nel partito liberale di massa di Forza Italia; il gruppo di Basini in An e poi in Lega; Costa, Biondi e De Luca fondatori dell’Unione di Centro che finì con Casini; a sinistra, con i radicali, in Alleanza Democratica mentre l’Unione Liberaldemocratica di Zanone finì con Segni. Fino allo strazio finale della divisione nella divisione, Diaconale e Taradash a favore dell’entrata dei liberali nel fu Pdl contro Guzzanti e il siciliano De Luca che volevano impedirlo ( e la bandierina di Cavour è rimasta nel Trapanese). Sempre invisibili nel voto, in numeri primi percentuali, a parte l’exploit al 7% tra ’63 e ’68, dell’opposizione di Malagodi e del Costa confindustriale alle nazionalizzazioni, che fruttò il ritorno al governo del ’72.
Gustosissima materia, quella liberale sembra gradevole solo se di contorno; tanto più che il suo dibattito non è come quello, tifoso calcistico, delle altre formazioni. Discutere con i liberali significa affrontare montagne di pensiero, di tomi e conoscenze, dal Nobel Hayek, von Mises, Leoni al Popper della società aperta; dal Friedman della tassazione negativa al Laffer della curva qualitativa, base delle fiscalità di Reagan e Thatcher; dei loro scontri con i Nobel Modigliani e Stiglitz, con Keynes i cui seguaci Alesina e Giavazzi, cortocircuitati nel miglior moltiplicatore della spesa privata. Tale dibattito, sviluppato nei decenni contro marxismo e comunismo, si è poi ritorto contro gli autori. Come avrebbe detto Cipolla, le tesi degli Intelligenti (che fanno il proprio e l’altrui vantaggio), rivolte agli Stupidi (che causano danni ad altri ed a se stessi) hanno prodotto l’esito contrario.
Oltre alla mancanza di consenso popolare, infatti ai liberali è mancato anche quello culturale. Malgrado l’altissimo livello intellettuale, la divulgazione generale, come ricorda il sudafricano Khan, in tutto l’occidente ha disseminato odio per progresso, impresa, denaro e mercato. Anche se sarebbe bastato, con l’80enne McCloskey (nata uomo e marxista, poi donna di Chicago) ricordare che il libero mercato in due secoli ha aumentato il reddito del 3.000%. I liberali però non hanno concretamente difeso il punto fermo del libero mercato, nella libertà economica di liberi contratti, dove sta, secondo il simplicissimus Rampazzo, il liberalismo. La libertà economica, della libertà politica implica che non sia corretto distinguere tra merci immorali e morali, salubri o meno; o sono velenose o non lo sono. Implica che la burocrazia non possa obbligare privati a svolgere compiti, come i fiscali, che non competono loro. Se le attività sono troppo complesse per la burocrazia medesima, vuol dire che sono demenziali e devono essere semplificate. Più burocratica è un’organizzazione, più lavoro inutile tende a rimpiazzare il lavoro utile (Friedman) .
Oggi in Italia spesa e tasse sono quasi metà del Pil, non il 20% dell’epoca di Keynes, sostenitore all’interventismo pubblico. All’inizio dei ’90, l’80% dell’economia nazionale era partecipata dallo Stato. Oggi, dopo le debacle aziendali e le fughe di grandi imprese, siamo tornati a quel punto, dopo tutte le privatizzazioni fatte e con un debito pubblico raddoppiato. Le professioni liberali nella giustizia, nell’informatica, nell’architettura, nel’ingegneria, nell’economia e nelle università si sono abituate a generare reddito dai meccanismi di mancanza di mercato. La giustizia lunghissima e inconcludente, la burocrazia dei controlli e dei sospetti, l’adeguamento logico all’illogico, la formazione orwelliana hanno creato competenze specifiche parastatali, che ricalcano necessariamente i mali della norma originale. Dunque l’Italia è il paese meno liberale d’Occidente, oggi nemmeno più liberale di parte dell’Europa Orientale. Come potrebbero i liberali contare qualcosa?
Resta il fatto che non c’è popolo più individualista dell’italiano, più creativo, più produttore di eccellenze, più noncurante delle comunità e delle patrie di origine e meno organizzato, se non nelle piccole dimensioni. Che l’Italia ha inventato la lettera di cambio, il grande finanziamento anche a Stati, il diritto ‘autore, la cambiale. Resta il fatto che non ci sia paese più salubre; più relativista, più imborghesito e più consumista. Dagli anni ’70 fino ai cinque stelle, la lode per il primato della necessità della merce è stato cantato anche da indiani metropolitani e comunisti. Il trionfo della merce e del consumo è la base della vittoria del libero mercato, cioè del liberalismo, in nome dei quali soltanto oggi è possibile una rivoluzione in Occidente. Certo bisogna risolvere il problema delle merci obbligate, che si accompagnano ai doveri di legge. Energie sostenibili, auto elettrica, merci filo femminili o cosiddette non discriminanti, limiti inarrivabili per sicurezze infinite, prevenzioni futuribili e massive costituiscono acquisti obbligati, fatti pagare a tutti secondo una china che non libera mai risorse. Un sistema obbligatorio che va di pari passo con l’interpretazione della società aperta chiusa solo agli intolleranti. Chi si ribella alle buone cose ripetute all’infinito dal politicamente corretto diventa intollerante. Messa così, nessuno è più intollerante degli italiani e dei liberali. Un buon terreno per incontrarsi.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.