Riformismo è un termine equivoco, con mille sfaccettature di senso e significato, deteriorato dall’uso e dall’abuso. Capita spesso alle “parole della politica”, che diventano passpartout retorici o strumenti inservibili. Stessa sorte è toccata, almeno in parte, alla parola “liberalismo”. Certo, nell’uno e nell’altro caso, ci si potrebbe attenere all’uso storico dei due termini, circoscrivendo il campo: da una parte ci si limiterebbe a intendere per riformisti quei socialisti gradualisti che si opposero ai massimalisti e rivoluzionari che volevano tutto e subito; dall’altra, liberali sarebbero solo coloro che hanno posto l’accento sulle libertà formali e sulla loro necessaria priorità rispetto alla giustizia sociale. C’è però un modo di intendere il riformismo che forse può essere per noi di non secondaria importanza euristica. In questo senso, il riformista è colui che non vuole fare reset di ciò che è stato, non vuole riavvolgere il nastro e ricreare daccapo il mondo, un “mondo nuovo” e un “uomo nuovo”, diversi, migliori, finalmente “razionali”. In questa pretesa, egli vi vede non solo una tracotanza destinata a fallire e a generare danni, ma anche qualcosa di disumano.
Il “mondo capovolto” di marxiana memoria è per lui un non-mondo, cioè un ambiente non adatto alla vita, la vita umana nella sua interezza e necessaria imperfezione. Alla rivoluzione, cioè etimologicamente al rivolgimento, egli preferisce la manutenzione: cioè la cura puntigliosa e gli interventi puntali di sistemazione, aggiustamento, adattamento. Considerata la faccenda in questa prospettiva, è evidente che il riformismo non è né di destra né di sinistra: anche a destra ci sono “conservatori rivoluzionari”, cioè coloro che vogliono ricreare un mondo che non c’è più o una condizione che forse non c’è mai stata; ed anche a sinistra ci sono, o meglio ci sono stati, riformisti che hanno accettato il mondo come è, ad esempio la razionalità capitalistica, proponendosi solo di rivendicare e contrattare, con metodo democratico, migliori condizioni per i più deboli. Il fatto è che oggi, a sinistra, i riformisti non esistono più: ci sono solo rivoluzionari. Ci sono i classici rivoluzionari socialisti, o materialisti, quelli che vogliono creare una società ove le diseguaglianze economiche e sociali si assottiglino sempre più, fino a scomparire (anche se forse non hanno più il coraggio di parlare di “comunismo”); e ci sono i rivoluzionari dei “diritti”, più forti e insidiosi dei primi e in maggioranza, quelli cioè che vorrebbero non tutelare le “minoranze” e le “diversità”, come dicono, o salvarci da cataclismi ambientali imminenti, ma affermare d’ emblée un nuovo paradigma ideologico che perimetri a priori ciò che è buono e giusto, cioè i valori da promuovere (anche attraverso l’educazione o rieducazione) e quelli da estirpare il prima possibile dalla faccia della terra perché residui, a loro dire, di un passato tenebroso di cui ci si deve sentire in colpa. Questa differenza fra riformisti e non a un certo punto ha solcato anche il campo liberale, tanto che oggi, di fronte all’ondata liberal, i liberali classici son costretti a specificare di essere liberal-conservatori.
Ove il conservatorismo è ovviamente quello à la Edmund Burke, che dopo tutto era un illuminista che credeva nella ragione che però per lui era quella riposta nella tradizione e non quella astratta costruita dalla mente umana. O alla Roger Scruton, che ci ricordava che ai conservatori non si addice nemmeno lo stile e il linguaggio (non solo le idee) di Saint Just e Robespierre. Oggi si dice che in Italia ci sia voglia di centro, che l’area moderata sia poco o mal rappresentata. È una parte della verità: l’Italia profonda non è immobile ma vuole cambiare nella continuità, non vuole fare salti nel buio, desidera che i valori in cui ha creduto e crede si trasformino ed evolvano sì ma senza stravolgimenti o palinodie. È un’Italia riformista che, a mio avviso, non può sentirsi rappresentata dai partiti di Renzi, Calenda o della Bonino. Non perché questi partiti vogliano rivoluzioni sociali ed economiche, non perché siano socialisti: la loro aderenza al modello capitalistico non è in discussione. Il fatto è che però essi soggiacciono all’ideologia dei diritti, al politicamente corretto, alle parole d’ordine della cultura mainstream. La quale, se non da un punto di vista dei sistemi economici, è sicuramente rivoluzionaria e non riformista nei sistemi di vita proposti e che rompono in maniera netta con la nostra tradizione umanistica e cristiana (si pensa all’ideologia e alla retorica del gender). Ed è in questo spazio riformista, liberale, moderato, quindi non ideologico, sia dal punto di vista economico sia da quello dei valori, che potrebbe inserirsi, se ben condotta, l’operazione della federazione unica fra Lega e Forza Italia. Un’operazione a tavolino, una fusione a freddo? Dipende. Se il nostro ragionamento regge, semplicemente un’idea intelligente, un’offerta politica che risponde ad una domanda reale.
Blog Corrado Ocone
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845