La strada è vita

Le storie di Nene Milano

Piccola. Una stellina, diceva sua madre. Ma i tacchi no, erano scomodi, le mani a disegnare significati nell’aria, la voce modulata in crescendo, un’anima inquieta, bizzarra, ma dilatata all’infinito. Piccola, inchiodata su una sedia straripante di cuscini, ancora anelli giganti, indossati come trofei, sul balcone di una casa di ringhiera, a Milano, la muffa invadente, infiltrata ovunque, quasi una soffice coperta protettiva. Piccola, mangiata da due occhi dorati, coccinelle annegate in un campo di grano e un violino addormentato sulle ginocchia puntute, il compagno di una vita, l’illusione che ama il viaggio, non importa dove.

“La strada è vita” era una convinzione sospesa, sognata in quella Milano d’agosto del 66, liquida di afa e di colori, ferma, in una tomba di silenzi. Un violino vibrava una solitudine dolorosa, una Polonia lontana da dimenticare, il pulsare di un cuore ferito, la libertà da amare ed era la fascinazione collettiva di un vagabondo, un artista di strada, là in piazza Madonnina, davanti a una chiesa sconsacrata, a Milano.

La strada è vita: tutti avevamo letto Kerouac «Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati» «Dove andiamo?» «Non lo so, ma dobbiamo andare». Portai anche il mio violino, una sera, goffo, incerto, sommesso e poi sicuro, in volo, finalmente uniti, a squarciare la notte che voleva dormire ed era già un gioco d’amore, la promessa di un viaggio dentro e fuori di noi….Ghirlande di fiori, al collo, nei capelli, sui rami degli alberi, gli amici intrecciati per mano sussurravano le domande di Bob Dylan “Quante strade deve percorrere un uomo, prima di essere chiamato uomo?…La risposta, amico mio, se ne va nel vento…” Al Parco Sempione, Briciola, il “pittore” che creava miniature con fiori secchi, officiava il nostro matrimonio hippy e una foto comparve su un foglio ciclostilato chiamato giornale underground da intellettuali “alternativi”; sempre alterativi a qualcosa, soprattutto al perbenismo borghese, per la libertà di autodeterminazione, per la pace.

Sì la strada è vita “Andiamo” Ma non eravamo hippy, o forse sì, perché l’amore illuminava i nostri giorni, gli echi della guerra in Vietnam ci facevano orrore, ma bastavamo a noi stessi e quell’andare, sempre avanti, con la nostra musica forse un po’ elitaria, era un microcosmo curioso che si apriva alla conoscenza, alla complessità di altri mondi. La strada aveva il suo ritmo di sorprese, di pudori nascosti, di semplicità rivelata, di gesti generosi, di attacchi irrazionali, di disprezzo malcelato.

Forse eravamo beat. Allen Ginsberg parlava di “traiettorie e triangolazioni di individui uniti dal comune modo di sentire: gente senza fede con la coscienza di non aver più nulla da perdere”. Ma noi, non ci sentivamo “battuti” e sconfitti di fronte alla società, all’avidità per il denaro, alla violenza, alla sete di potere. La strada squadernava la sua verità quotidiana, le conquiste di uomini a volte vinti, illusi, ma non rassegnati e di fatiche per il pane, di sogni d’amore, di incanto con la rugiada perlata del mattino, la ritrosia dei fiori al risveglio, l’abbraccio sorridente dei rami, là dove gli alberi toccano il cielo, l’uccello smarrito che non sa ritrovare il nido e le campane violavano il silenzio di un’alba rosa di promesse. La protesta, ancora confusa, attraversava il tempo ed era legittima, sentita, ma un cambiamento radicale, un futuro “mondo d’amore e di pace” era l’utopia a cui aggrapparsi, la proiezione di un sogno a cui “il vento” non sapeva rispondere.

Forse eravamo semplicemente artisti di strada che barattavano emozioni con segni tangibili di ringraziamento. Vivaldi, per due violini, iniziava la drammaturgia del nostro concerto… e Paganini, Beethoven…Charlie Parker rivisitato, e improvvisazioni di note, di virtuosismi, di gioia. La libertà diventava estasi, senza droghe, senza allucinogeni, una dimensione senza tempo, senza confini e c’era una pastasciutta condivisa con un contadino poeta, un “grazie” su un biglietto abbandonato quasi per caso, una collana di margherite, un ballo improvvisato, il profumo intenso di una magnolia. La strada aveva un prezzo, con le lunghe attese per l’autostop, il brontolio delle foglie calpestate a terra, i portoni rifugio per la pioggia improvvisa, il freddo nebbioso penetrante, la notte in una “comune” su giacigli a terra vestiti di sporcizia, una puzza vagante di vomito, la ricerca di un bagno a pagamento, gli incontri con vagabondi invasati, senza un perché.

Parigi, la magia di una bellezza crepuscolare, le strade lunghe ombreggiate dagli alberi, la voce sommessa della Senna, l’austerità dei monumenti, stregata da un romanticismo da sfogliare lentamente, negli angoli nascosti, dove si affacciavano negozi di fiori e quella piccola libreria di testi antichi, rarissimi, da non toccare, custoditi da un vecchio sognatore e quel minuscolo teatro dove gli allievi della Comedie Francaise mettevano in scena un autore, ogni anno, e Ionesco presentava, in quei giorni, l’assurdo di un mondo che cambia, ma in un modo che non ci è dato di comprendere… Incantati, euforici, i progetti si moltiplicavano e, forse, una distrazione, in un luogo sbagliato, non so, in boulevard Saint Michel, mentre gustavo una brioche e poi…lo schianto. Mi ritrovai in carrozzina, una gamba abbandonata sull’asfalto, l’altra maciullata. Sì, mia madre mi aspettava, mi aveva sempre aspettato con il cuore gonfio di carezze e tornai, lasciando volare i sogni nel vento.

Nessuna retorica o generosità, ma un sentimento di giustizia e mi condannai a una solitudine voluta, ma dolorosa “Vai”, dissi a lui, all’artista che offriva le nuvole, al guerriero senza paura, all’uomo che era parte di me, dissi ancora “Vai…ricordi? La strada è vita e la tua vita è la strada…mi racconterai, quando vorrai, le tue notti di luna piena e i tuoi giorni di sole”.

La sera, il violino canta ancora Vivaldi, accompagnando un pianto leggero di struggente nostalgia. In attesa.

Nene Ferrandi (da Voce Blu – blog di Letteratura Arte e Spettacolo)

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