La sinistra ex-post e neo-comunista ha sempre un bisogno incontrollabile di “fascismo”

Attualità

Si può sostenere che il vero nodo irrisolto della politica italiana – più che nei folcloristici manipoli di sedicenti fascisti svelati da Formigli via Fanpage – sia da ricercare nell’aver avuto tra i suoi protagonisti il più importante, il più organizzato e il più culturalmente attrezzato partito comunista del mondo libero? L’interrogativo è per molti sicuramente scomodo, ma forse dovremmo cominciare a porcelo se è vero, come scrive anche Mattia Feltri, che l’etichetta di fascista circola da troppo tempo e che nel corso dei decenni se la sono ritrovata appiccicata addosso anche statisti del calibro di Fanfani («fanfascista fanfagotto e faffanculo», ritmavano i cortei degli anni ’70) e Craxi, oltre che leader politici come Berlusconi e Salvini. Lasciamo per comodità fuori albo Almirante, Fini e Giorgia Meloni, la cui adesione al fascismo era (ed è) presunta per ascendenza storica. Per loro vigeva (e vige) il principio dell’inversione dell’onere della prova. Sta bene così, ma per gli altri? Qual è la prova regina, la pistola fumante del loro “fascismo”? La risposta è semplice: l’anticomunismo. Ne dispensò a piene mani, e con ben altra caratura politica, anche quel Bettino Craxi che pure accordò (con eccessiva generosità) il proprio placet all’ingresso del Pci-Pds nella famiglia del socialismo europeo. E siamo al punto: perché solo in Italia l’anticomunismo si traduce come fascismo? Semplice anche qui: perché solo in Italia la democrazia si traduce come antifascismo. Ma si tratta di un’equazione clamorosamente falsa. È infatti esistita (ed esiste) una modalità comunista di essere antifascista che non coincide con la democrazia. È la stessa, per intenderci, che infuriò a guerra ormai finita nel Triangolo della morte. Non già per scovare ed eliminare il repubblichino alla macchia, bensì il borghese, l’agrario, il sacerdote, il liberale e, se necessario, anche il socialista.

Chiunque, insomma, avrebbe potuto frapporsi al progetto di trasformare la lotta di liberazione delle forze antifasciste in conquista del potere da parte della fazione comunista, la più attrezzata anche sotto il profilo militare. E poco vale scomodare la specificità del comunismo italiano, per quanto innegabile sia l’impronta di originalità impressa da Togliatti al Pci. Ma è altrettanto innegabile che quel leader e quella sigla siano stati legati a doppio filo allo stalinismo fino a condividerne tutto, persino i rantoli finali. Né cambiò granché dopo la morte del Piccolo Padre, tanto è vero che il Pci avallò tanto la repressione del 1956 in Ungheria quanto l’invasione dell’allora Cecoslovacchia nel 1968. È storia. E spiega perché in Italia la sinistra ex-post e neo-comunista avverta sempre un bisogno spasmodico di “fascismo”. È il suo modo per legittimarsi demonizzando nel contempo chiunque azzardasse ad ipotizzare un cambio di schema. Lo sa bene Silvio Berlusconi, padre del bipolarismo eponimo della Seconda Repubblica, ma assurto a Cavaliere Nero subito dopo aver detto «a Roma voterei per Fini». Da quel momento in poi disarcionarlo diventò un imperativo categorico. Anche a costo di mandare a carte quarantotto la tanto sospirata e reciprocamente legittimante democrazia dell’alternanza, certamente bella, moderna ed europea, ma mai tanto redditizia e rassicurante per la sinistra ex-post e neo comunista quanto la democrazia antifascista. La soluzione al cui prodest? riferito alla perenne incombenza del “pericolo nero” è tutta qui

Blog Mario Landolfi Giornalista, già parlamentare di An e del Pdl

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