Il più grande partito morente di Vicidomini

Cultura e spettacolo RomaPost

Molti ne parlavano come uno zingaro (anzi zincaro) finito sul palco teatrale, ma l’attore Nicola Vicidomini, al suo arrivo si presenta baldante e baldanzosamente bello, aitante nel bianco abito con gilet che fa tanto giardino dei ciliegi. Il baffo aristocratico, il gesto elegante, il sorriso sornione sotto il baffo che conquista, ne farebbero, a volerlo sminuire, un eroe da fotoromanzo, un vitaliano che non può essere un tronista perché i fini dicitori furono ben altra cosa. Il camino per la grande tradizione del cabaret europeo comico, surreale, assurdo gli si è presentato subito impervio, non possedendo il Nostro assolutamente il phisique du role gobbo, fantozziano, gaffeur, grassone, smilzo, nano. Come potrebbe rappresentare mai la tragedia della vita questo Bongusto 2.0, mix di Tomasi di Lampedusa e Indiana Jones del salernitano, made in Tramonti (che qualcuno chiama per nobilitarlo l’amalfitano) cui mancano pure la deformata mascella magnogreca totesca e la cadenza campana?

Senza il fisico adatto, dunque. E pure senza il contesto culturale e sociale. Che razza di deviante può essere l’Attore in una società che ha superato ogni ipotesi ardita di Foucault, quale stravaganza può imporre tra i mille tatuati, nasoanellati, queer e drag queen? Il mondo è andato troppo avanti, avrebbe sospirato Roland; e gli epigoni del cabaret e dell’avanguardia che furono, Bene, Cinieri, Cochi e Renato, Iannacci, Fo, Abatantuono e gli ultimi resti derelitti di quel mondo arboreo come Frassica o Aldogiovannigiacomo, inutilmente lo ispirano, lo spingono, addirittura firmano le prefazioni all’esegesi del suo teatro (Il più grande comico morente – la comicità e il teatro di Nicola Vicidomini, Mimesis editore). Quei cabarettisti, un tempo tanto dadaisti, appaiono oggi educati e calmi pensionati; le loro provocazioni e sberleffi, invisibili come i poveri di cui trattavano e che oggi fanno schifo anche al Manifesto; i loro luoghi del Derby sono da tempo occupati illegalmente da retroguardie che hanno preso il posto dell’avanguardia. Non ci sono più comuni convenzioni, non c’è più il comune senso del pudore; Fazio non è una macchietta, moderno Ntoni de la Moscheta, ma proprio esaltato esempio di carriera offerta ai giovani incapaci di disgusto. Neanche la cinica rappresentazione del territorio, tremendo ed agghiacciante, di Ciprì e Maresco, indigna più, ora che il bau bau Berlusca è lontano ed il voto tornato al suo posto. E’ la rappresentazione di realtà immutabili aggraziate ora da mandrie di cinghiali.

Di molti, lavoratori in smart working, come della maggioranza degli utenti più socialmente attivi, si potrebbe dire Fa schifo. È sporco. Non si lava. Feta. Cammina male. Non ha nulla da dire, Non sappiamo chi sia. Ci dispiace: non possiamo assumerci la responsabilità di trasportarlo. È brutto. È pazzo, secondo le definizioni di Avezzani per Vicidomini.  La frase Mi piacciono le viecchie… Se stanno per morire! è abituale presso le resse giovanili da aperitivo. Marxisticamente e qualunquemente, parlando, l’uomo comune, con Vicidomini, direbbe a due voci, che se fosse stato socio Aci un camion lo avrebbe certamente investito; oppure, ho gusti molto differenti dai miei. I numerosi clochard delle stazioni e non solo, che, non si sa come.  sanno di insetticida e shampoo, con le camicie ingruggiate appese ai cestini dei rifiuti, hanno reificato l’assurdo di Beckett. I genitori, quando sono costretti a ritirare i figli da scuola per rimostranze sindacali, dicono ai ragazzi Ma tu Bestemmi a scuola? Ci sono delle bestemmie creative, dovresti impararle. Nelle campagne elettorali capitoline la propaganda martella Sarai un cesso, vedrai. E tutte ti invidieranno nei salotti male, tutta la Roma male. E tutti, tutti parleranno di noi. Tutti vorranno tenerci lontani. Rappresenterai uno stadio ineguagliato, anelato nel profondo da ogni essere incivile, da ogni persona che non si rispetti.

Evidentemente Vicidomini rischiava l’anonimato, la confusione e la fusion tra i moltissimi banali mostri del nostro tempo. E per questo una folla di intellettuali si è messa a lodarlo, da Giusti a Barlozzetti, da Abbate a Di Consoli, da Rosa a Vitali, dalla Dell’Ombra a Perretta, da Amendola a Giurato, da Bernard a Milani, da Del Gaudio a Maiorano, da Focas a Ponzoni e Di Marino. Si sono messi a filosofare sulle fonti della commedia dell’arte e della sperimentazione per convincere addirittura l’americano Middlebury College, Vermont a studiare la forma teatrale di Vicidomini. Direttori di Festival del Cinema, cantautori, registi, discografici, opinionisti, volti storici porno, improbabili Roma Music Day si sono inebriati nelle lodi in realtà rivolte a sé stessi.

L’errore però è stato di trovare in Vicidomini una conscia animalesca, fantastica e chimica, proteiforme concezione, folle e visionaria, del palco. Questo Orso incazzato, italiano vero, è proprio animale ed il teatro, al suo apparire, diventa naturalmente sotterraneo, viscerale, bestialmente mistico. L’animale sopravvive, oltre il disgusto per l’umano vivere. Se si vuole fenomeno o mostro; ma non un mostro in qualcosa, di qualcosa, per qualcosa. No, proprio un mostro. Come uno pterodattilo, l’animale vive. Non è che debba ragionarci sopra. Vicidomini fa. Non si sa bene cosa, ma fa. Ascolta Musica per chiavare; fa rumore, urla, versi e gestacci; cachinicchia con pernacchi eduardiani, attaccato all’ancora di salvezza della bustona di plastica grossa, come topi e gabbiani. La felicità può essere una busta di plastica senza buchi, dal film Shakespeare a colazione. Nella plastica, condannata per immorale inquinamento, stanno grottesca dolorosa maceria, memoria, speranza di tragicità estrema, autodistruzione ed autodeturpazione volontaria. L’animale attenta all’antropocentrismo con il fallimento ed il collasso di ogni senso. Come alcuni animali si nutre (ed adora) di feci, simboliche e non, proprie ed altrui.

Il pubblico dissacrato, animalmente, si ritrova a ridere senza sapere perché, o meglio per non impazzire del nonsense. L’animale appare guitto, reietto, avanzo di galera come scrive Sabetti, mostro dissennato, aizzato, masochista; con Di Consoli satiro da sottosuolo, scemo di paese, aruspice, mutilato di guerra, reduce affamato, eccitato, profeta di morte, folle dilaniato dalla rabbia e dalla dolcezza di nullità cercata ostinatamente. Si bea oscenamente ed istintivamente della propria e generale irrilevanza, deforme presenza. Null’altro ha, Vicidomini, se non il proprio genio, tuttavia null’altro disprezza, Vicidomini, se non il proprio genio. Le maschere, Scapezzo, Veni Vici Domini e Fauno, sono fisicamente e igienicamente ributtanti, stolide, sguaiate, sudate, unte. Sono animali che non possono badare alla disintegrazione sociale in corso. Il pubblico fa dipendere il disagio dal gramelot campano; in realtà lo ha già dentro. A Gioia Tauro gli spettatori sono andati a protestare al Comune contro Vicidomini per averli terrorizzati e scioccati come un Golem, che si strizza i genitali, fatto con la merda al posto della terra.

La devoluzione, annunciata dai Devo nei primi ’80, oggi è realtà. Il senso comune è sepolto, l’idea del progresso finita in una narrazione statica e ripetitiva. Il fallimento, muggito dall’attore con voce tonante, declama in faccia agli umani l’insuccesso che non tocca l’animale demoniaco Scapezzo. In questo teatro horror, l’attore umano è morente (il più grande comico) proprio come la politica. Alla fine delle norme in vigore anti Covid che avrebbero riaperto i teatri, Vicidomini pensava di creare un Partito Morto. Sarà meglio che sia Animale, invece.

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