Gli italiani risparmiano quasi tutti, malgrado che il loro Stato sia sempre in bolletta. Gli italiani sono in grande maggioranza proprietari di casa. Ed ora, certifica il CensisconLenovo, hanno un’altra caratteristica, a prescindere da opinioni e latitudini. Sono ampiamente digitali. In dieci anni il 13% degli italiani (dai 14 anni in su) che possedeva uno smartphone, è divenuta l’83%, come gli internauti. La spesa familiare relativa, in tempi grami, di calo generico del 13%, per gli smartphone è cresciuta del 450% e per i Pc è raddoppiata. Una crescita trainata dal 70% di digitalizzazione dell’economia. La cosa non è così neutra come sembra; anzi impatta drammaticamente sull’idea generale di società, di vita ed in ultima analisi della politica.
Negli ultimi dieci anni con una progressione continua gli italiani si sono affidati alle messagistiche non telefoniche per comunicare, alla localizzazione per muoversi ed allo streaming ed ai games per divertirsi. Poi si sono impratichiti con gli acquisti dell’ecommerce, con la fruizione culturale augmented, con la ricerca dei piccoli lavori della gig economy e la fruizione dei conti bancari on line. L’ultimo biennio dell’emergenza sanitaria ha assestato il colpo decisivo, dimostrando, più o meno, che si può lavorare, studiare e finire in tribunale con il digitale e nel digitale, mentre anche le relazioni più strette ed intime, dalla seduzione alla gelosia, si sono digitalizzate. La quota di vita virtualizzata, proiettata sugli strumenti digitali è divenuta ipertrofica fino a schiacciare la vita reale. Eppure, abbiamo appena intrapreso la rampa di scalini che conduce all’Internet delle cose, alla moneta elettronica, alla robotica ed alla videosorveglianza espansa. Gli strumenti che trasformeranno il digitale da bidimensionale a tridimensionale, portandolo nella vita reale.
Il risparmio implica ansia, premura ed attenzione per custodire e valorizzare la ricchezza accumulata da sottrazioni illegali e legali. La casa ugualmente è ricchezza stanziale facilmente sotto bersaglio ed attacco per il giudizio di manomorta che ne dà il mercato dei capitali. Il digitale no, è puro benessere, praticamente una droga. Istituzioni e media martellano sull’isolamento e solipsismo sociale; sui pericoli incombenti sulla sicurezza dell’identità della persona e dei dati; sui contenuti proibiti di pensiero, di opera, omissione e commercio. Le loro prediche assorbono tutto il tempo del dibattito digitale senza controsservazioni opposte. Inutilmente; il 70% degli italiani, per i quali la digitalizzazione migliora la qualità della vita, non li ascolta. Il 90% dei possessori di dispositivi digitali, cioè dell’83% degli italiani adulti, soddisfatto dei dispositivi digitali che possiede. Ed è appagato non perché rispondano alle sue esigenze ma perché ne suscitano di nuove e nuovissime, inventandole ogni volta.
L’offerta dei beni e servizi digitali sembra venire da un altro mondo, sembra affrontare le cose con un punto di vista del tutto innovativo, sembra precipitare le cose con un punto di fuga infinito per nuovi cambiamenti d’offerta, prossimi ma sempre oscuri e misteriosi. I fruitori, proprio come i drogati, anelano alla prossima novità che si attendono eccezionale per quantità e qualità senza un’idea precisa di cosa e come sarà. Parafrasando Marino, fin del digitale è la maraviglia. I fruitori scoprono, nel digitale, sempre cose nuove, di immediata semplicità e di enorme potenza per fare quanto desiderato senza limiti di spazio e tempo, fino a perdersi in una fantasia smart al confronto della quale la realtà è avvilente. La realtà, però filtrata dalla visione digitale, nel continuo, talvolta goffo tentativo, di imitarla, si redime almeno in parte, facendosi sopportabile. Ormai altrove è stato deciso che il digitale sia rinominato innovazione. Ed in realtà il meccanismo economico, gli strumenti tecnologici, i capitali sono veramente di un altro mondo. Innovativi e di un altro mondo. Questo agli italiani non interessa.
Non interessa agli internauti neanche la nenia del vittimismo sociale del digital divide, grande leitmotiv delle istituzioni e dei media, alla rincorsa nostalgica delle battaglie economiche di un tempo. Chi non è connesso è anziano e pure in minoranza nella sua generazione (4,3 milioni); ugualmente corre il giudizio su tutti gli altri divisivi digitali con connessioni lente e condivise, spazi inadeguati e disagiati. Ricchi e poveri, italiani e stranieri, giovani e vecchi possono usare gli apparati sullo spazio delle ginocchia dove Montanelli scriveva i pezzi da inviato. Non parliamo poi dell’altro mantra colossale delle competenze, propagandate in continuazione come necessario passe-partout per usare gli strumenti digitali. Solo un 10% ha idea dei meccanismi tecnologici che li fanno funzionare ma non per questo la grande massa di internauti, istruiti o meno, non li usa massivamente. Il digitale ha vinto la scommessa dell’uso friendly dello strumento con ben poche competenze; un uso che è stato alla base anche di tanto smart working. Certo, qualcuno avrà difficoltà con WhatsApp oppure con la posta elettronica, che peraltro le piattaforme vorrebbero morta. C’è sempre però una qualche soluzione alternativa, in un’offerta enormemente ridondante.
Soprattutto stufa l’allarme della sicurezza. L’altro mondo che imposta hardware, software, procedure, soluzioni, piattaforme, servizi sta facendo crescere esponenzialmente le misure di sicurezza. La decisione viene presa filosoficamente come la pioggia ed i terremoti, decisioni divine sulle quali l’umano è ininfluente. Mentre si arrangiano, non istruiti ed incompetenti, di fronte all’impervia security, gli internauti non credono alla sua efficacia. Infatti, la grande maggioranza dei lavoratori, dirigenti, dipendenti ed autonomi, usano intercambiabilmente, come la mano destra e la sinistra, device personali ed aziendali per fatti propri e di lavoro, in barba a tutte le configurazioni strette, pensate apposta per i workplace. Da questi apparati, personali e aziendali, salvano la propria vita, lavorativa e personale, su un cloud fatto da server collocati chissà in quale continente. Pagano, investono, scambiano password in completa fiducia sia se ignoranti, più se istruiti. Il digitale è consenso pieno e assoluto; la fede dei tempi moderni, più di scienza, politica e religione. La privacy è un lusso cui tutti gli utenti felicemente rinunciano. D’altronde è importante per pochi; quei pochi che realmente con il digitale si arricchiscono come ha fatto notare Masiero al Digital Summit 2021.
L’ultimo mantra, realmente idiota, è il tema, continuamente sbandierato come una bandera da toreador, del rapporto tra internauti e pubblica amministrazione. Un rapporto che non esiste. Basta confrontare la distanza siderale esistente tra tesserino elettorale e voto elettronico, idea peraltro uccisa dalla gestione dissennata pentastellata degli strumenti di democrazia diretta. L’idea di Pa degli internauti è sostitutiva dell’esistente. Non c’è servizio pubblico comparabile che le bluchip del digitale non facciano meglio. Sul vecchio tema della scrittura semplice di leggi e sentenze non si spera più, come nemmeno dell’eliminazione degli astrusi moduli. Dialogo via e-mail o messaggistica, scarico semplice online di certificati, tramite unica password appaiono miraggi, nel contesto in cui i 34 milioni di identità digitali poggiano su strutture private. Permane l’equivoco di fondo. Il digitale offre, come già la Tv, servizi e contesti aggregativi gratuiti pagati dal mercato pubblicitario. Offre continue ed enormi scappatoie per contenuti proibiti che ne sorreggono l’audience. È luogo di commercio scontato e conveniente. In tutt’altro metaverso i servizi Pa non sono tali ma esazioni di tasse, bollettini e multe. La Pa non manda poliziotti o infermieri on demand, non facilita la firma per referendum, non offre uno storage di documenti cui accedere con semplicità. L’unico vero servizio offerto negli ultimi anni è stato il 730 precompilato, apprezzato da 4 milioni di utenti.
Gli italiani digitali, anzi dell’innovazione, sanno di non vivere, come positivamente concludono le ricerche nel migliore dei mondi possibili (società digitale più connessa, sicura e inclusiva). La connessione dovunque e comunque uccide sicurezza e inclusività. Si va verso l’estraniazione dalle tradizioni nazionali paese (difese solo sul fronte gastronomico). La droga digitale è assorbente, conquistante, totale ma straniera. Non è decisa nelle sue forme e nei suoi metodi in patria, nell’ininfluenza della politica e della Pa. Anzi, gli italiani dell’innovazione si aspettano che il digitale straniero nel futuro le sostituisca entrambe; che la giornata da 24 ore (già applicata dal 40% dei giovani e dal 25% globale) diventi normale e non per decisione nazionale; se ne fregano del dibattito ufficiale sul digitale e spesso anche di quello globale, su clima, donna e gender. Basti pensare che la massa di internauti è favorevole, oltre la metà, alla reintroduzione della pena di morte (Swg 2020) in una crescita raddoppiata in un decennio.
La crescita digitale degli italiani sottolinea l’autoreferenzialità di politica, istituzioni, amministrazioni e dibattito pubblico. Da una parte loro, drogati da una policy straniera incommensurabilmente migliore; dall’altra l’inerzia ufficiale ed inutile dell’istituzione che tira a sopravvivere. C’è solo da meravigliarsi che l’astensione di massa non si sia manifestata prima. Per ora procedono in parallelo, non belligeranti, ignorandosi a vicenda.

Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.