Nene Ferrandi premiata con Menzione d’Onore al concorso letterario “Scaramuzza”

Cultura e spettacolo

Il caporedattore di questa testata, Nene Ferrandi, è stata premiata con la Menzione d’onore  al “Concorso Letterario Scaramuzza” con il racconto inedito “Questa terra canta la sua anima” di seguito riportato. Tutta la redazione si congratula per il riconoscimento.

QUESTA TERRA CANTA LA SUA ANIMA

Questa terra canta. Ancora. Acquarelli di memoria annacquati dal tempo, troppo tempo. Lampi d’incanto di una bambina curiosa. Voci in fermento, gridate, affannose, sussurrate, indolenti, ripescate da un cuore stanco. E il Po, il Padre  della Bassa, una pianura apparentemente senza un perché, grassa, sanguigna, geniale e un orizzonte senza confini, per sognare il futuro.

“Nonna perché sorridi?”

“Vorrei regalarti un sogno, uno di quei sogni già vissuti, da ripercorrere con il pulsare del cuore. Questa terra canta ancora per me, dopo 50 anni: note di un’infanzia che correva, che volava in bicicletta, la libertà con il vento nei capelli, una fetta di micca di pane con la marmellata della zia, l’acqua col tamarindo per non bruciare di sole, l’azzurro degli “Occhi della Madonna” nell’aiuola sotto casa, un pavone che faceva la ruota per snobbarmi e una cucina con il vaso dei biscotti, là in alto perché non potessi rubarli, savoiardi da centellinare con il caffelatte del mattino, due palline di gelato per un dieci a scuola. E il sapore delle ciliegie era dolce come una sorpresa d’amore, ogni anno. I prati pettinati dal vento alzavano il loro sussurro di vita, finalmente, dopo lunghi giorni di nebbia vischiosa, cattiva, glaciale. Frammenti di un mondo, negli occhi di una bambina buffa, ma felice. La povertà non appartiene ai bambini.”

Nonna, altri tempi…

Sì, altri tempi, penso. Il treno del mio ritorno legge ritagli di colore, sfuggenti, irridenti, senz’anima. Non so ricomporre le immagini, le case, le stradine, i campanili, i campi di grano e di papaveri. I miei occhi sono annientati da una nebbia che non aspetta il sole domani o dopodomani. E’ una nebbia cupa, costante, ora senza rimedio. Ritorno per rispondere al richiamo d’amore  di Giada, mia figlia, senza rimpianti. Milano è stato un pezzo di vita importante, chiuso da un tempo di illusioni e delusioni, da un lavoro a volte esaltante, da un uomo che sapeva farmi ridere, ma non c’è più.

“Avevo fame di poesia e di musica e di carezze e sul gradino della finestra improvvisavo “il teatro” e parlavo con la radio che non rispondeva e inventavo le fiabe dei sogni, di principesse e principi sul cavallo bianco. Soarza era praticamente due filari di case rosa, uguali, sbiadite con dignità, due botteghe per il pane e la carne, una cascina in piazza, la scuola e una Chiesa. Le contrapposizione tra i seguaci di Peppone e di Don Camillo del paese, in sordina, a volte gridata, sanguigna. E l’apocalisse dell’alluvione del ‘52 fu devastante: cavalli d’acqua imbizzarriti, impietosi, un cielo buio di presagi. Scomparve anche il fazzoletto di campo dei narcisi e delle violette. Il Po presentava un broncio arrabbiato e violento, in quella notte di distruzione. In piazza, sul sagrato della Chiesa, su una barca di fortuna, la gente ritrovava una preghiera antica e il pianto, senza vergogna. Macerie, anche le fatiche, il lavoro. Un castigo, senza perdono? Una follia improvvisa?

Una Madonna Pellegrina, portata su un carretto sbiadito, percorse le strade impolverate e chiazzate di lacrime, fu il simbolo di una nuova speranza che ci rendeva uguali.

La vita riprese il suo ritmo, adagio, una continua attesa, leggendo il cielo, ogni mattina. Le stagioni dettavano la loro legge. La terra sapeva pulsare di vittoria, quasi sempre, per un dovere assolto. Al diavolo le schiene flagellate, la carne intrisa di sudore…Magia… Gesti convulsi, condivisi, balli sull’aia, zanzare invadenti, profumo asfissiante di  brillantina Linetti. Il dialetto pacificava l’ansia, il respiro del sole dava una gioia piena. L’amicizia di una fatica comune. I giovani sfioravano l’amore con uno sguardo, una carezza.

Zelinda aveva le idee un po’ spettinate, raccontava leggende di streghe, passava di casa in casa, la sigaretta che si sbriciolava in bocca, le carte in mano per predire il futuro e nascondere una povertà senza rimedio. Stelle, tante, allora erano luci, che sembravano giocare o ballare, non so.. E poi papà intonava un canto, mulinelli di frasche per il caldo, le donne anziane a guardare…“Va Pensiero…” e un abbraccio di altre voci spiegate a consacrare il raccolto dell’anno. Giuseppe Verdi, da ricordare, da risentire nelle zolle calpestate, accompagnarlo tra i sentieri misteriosi della sua vita. Il giardiniere, ormai ottantenne della sua villa di Sant’Agata, narrava che quel camminare e camminare ancora del Maestro fosse un modo per ritrovare se stesso, per dare vita a personaggi concreti, forti, diremmo figli di una Bassa, concreta, forte. Generosa.”

Nonna, adesso lavorano nelle cascine gli indiani, ci sono aziende industriali che esportano in tutto il mondo, le discoteche, i teatri, le manifestazioni all’aperto, ma già tu lo sai.

“Il cuore non può cambiare e neppure l’ironia, la capacità di ridersi addosso, la generosità innata, una cultura indotta che sa di lavoro, impegno, insieme, che sa sperimentare, creare e che è parte di te, anche se non l’hai ancora scoperto. Questa terra canterà sempre nelle pagine di ironia graffiante di Guareschi, nell’affresco epico dei film di Bertolucci, nella musica del “sommo” Verdi”.

Lo so che è settembre, sento nelle narici la foschia di un tramonto velato, pigro.

“Villanova fu una tappa di riflessione e la nuova sede dove mia madre insegnava. E c’era una magnolia gigante nel cortile, una lucertola senza paura nella fontanella arrugginita e i bambini, vestiti di stracci rifatti e di sole, ridevano, quanto ridevano, nei pomeriggi, dopo la scuola, là, dove un tavolo di granito rotondo diventava teatro, con Fagiolino e due burattini nelle mani di mio padre. Storie, avventure, il pane in mano per un doposcuola inventato condiviso con chi aveva fame. Tre uova, a Natale, erano il rispettoso grazie alla Maestra, ma erano fresche di giornata per fare gli anolini: uno scambio, un patto di riconoscenza. A primavera il trionfo dei fiori di ciliegio, da stordirsi, quasi un imperativo di risveglio. E lungo i fossati che tagliano i campi con viottoli polverosi, ogni cascina esponeva ciliegie e sempre ciliegie, l’oro di un anno di fatica…Non chiedeva, veniva a fare una briscola due o tre volte all’anno, il “povero” del paese e divorava il prosciutto, le mani gonfie, la parlata dialettale, un riso pieno..

Busseto, la piazza, musica, il Carnevale, gente, sempre tanta gente, arrivata in bicicletta, con il vestito della festa, il piacere di un bicchiere di lambrusco bevuto insieme e le romanze d’opera vibrate, urlate, condivise. La sera ci sorprendeva senza avvisare e papà aveva una moto Guzzi che sbranava la strada del ritorno a casa. Così mi sembrava.  La balera cantava la gioia, al sabato, nella piazza del mercato e gli incontri, l’amore. I girasoli inseguivano il sole per un bacio, come innamorati insaziabili. I miei occhi si stavano lentamente, molto lentamente, spegnendo. I colori impallidivano nei disegni sfuocati di una realtà, da risuscitare con occhiali sempre più pesanti. Era il tempo del dovere che brucia la libertà. Anni di collegio, un incubo freddo di divieti, un lungo pregare ogni mattinala, la soffocante convivenza senza poter scappare, lo studio pressante. Le finestre troppo alte anche per sognare. Mi chiedevo: dov’è il canto della mia terra?  E poi l’università a Milano, con una nostalgia struggente per il mio personale “mondo piccolo”, ma questa è un’altra verde avventura.”

Ascolto, nel silenzio degli occhi,  la marcia trionfale dell’arrivo con un pudore infantile, nella paziente attesa della scoperta.

 Nonna, siamo arrivate: questa è Fidenza

“Prendimi per mano e raccontami la tua “città” e io la vedrò e ascolterò il suo canto”.

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