“Dammi una sigaretta…” roca e cavernosa quella voce che trascina il viso in un riso invitante, biascicate le parole stanche, l’avidità è nello sguardo che sfida, imperiosamente impone. E dammi una sigaretta…E poi? Il mondo, una vita lunga ottant’anni, seduta sulla sedia di un bar, nella periferia sonnolenta di Milano est, aspettando che la notte spenga le voci. Con l’avidità serale di sigarette, tra clienti tardivi che cazzeggiano parlando di niente c’è Lela, un tempo la bella del quartiere, oggi gli occhi rossi, bruciati dal fumo, le mani rugose, stracci si direbbe dignitosi di terza mano. “…uno, due…sì bastano per domani..” La conta ogni sera, ripetuta, lo specchio di una povertà squallida, di un’abitudine all’attesa, di una rinuncia a chiedersi perché. Parlano le strade, gli incroci, la monotonia di case popolari sbriciolate dal tempo e i passi incrociano altri passi, pesanti e incerti, in un quadro di vite grigie, una generazione coetanea alla fine della guerra. I giovani rimasti gridano la vita in un bar, al Parco, al campetto di calcio. Lela tiene stretti in tasca i colori del sogno, la nebbia, i canti, le fatiche di quella Milano che ha saputo ridere, piangere, lottare, vincere, perdere, rinascere. Sprazzi di memoria che si dileguano, di antica volontà, di amicizia.
Con una sigaretta, da sempre, ha bruciato il tempo.
“Ma non doveva finire così….Raccontare la cronaca di un sogno realizzato, sarebbe bello…“Vai Lela, mi dicevo, Vai…Vola…e avevo sette o otto anni, scalza mangiando la polvere delle strade, gli zoccoli servivano d’inverno, alla scoperta di un quartiere amico, con el strascee più bello di Milano, che intonava “Stramilano” agli angoli delle vie, il gentiluomo che si inchinava per salutare una donna. Era mio padre, un artista, un inventore che dalle cose abbandonate nelle cantine o nei solai, creava lampade, ombrelli come nuovi, sedie impagliate di colori, venduti poi al mercato, anche agli oh bej oh bej su un tappeto “antico” per l’occasione. E cantavamo insieme in meneghino, con quel dialet che era la vita di noi milanesi, le nostre passioni, la nostra malinconia”.
La sigaretta non sa aspettare le pause, i silenzi di quel raccontare annegato in una infinita nostalgia e si consuma tra le due dita adunche che graffiano l’aria con movimenti ripetuti ed è il lento spogliare un’anima tormentata. I colori del sogno, allora, rincorrevano le ore, gli spazi…Rubare un pezzo di eternità e fermare quel tempo…
“Ero bella, una pigotta, diceva la gente, e cantavo come una cantante vera, che raccontava sommessa la storia della Rosetta, amava El barbun di Navili, esplodeva con Oh mia bela Madunina ed era milanese anche la mia pelle, là negli orti delle case popolari dove, verso sera, dimenticavamo la fatica del giorno per stringere patti di condivisione e di amicizia e c’era un sole arancio, o rosso che lentamente si nascondeva, al tramonto. Qualcuno si fermava per i primi baci, le prime promesse….e si andava al Parco Nord, i barboni, puntuali all’appuntamento, improvvisavano balletti, si raccontavano la giornata…qui va bene…davanti a una Chiesa è meglio…in quella piazza ci sono le panchine e poi tucc a cantà la bellezza di Milano, con i fiori alle finestre, i soprannomi con quintali di tenerezza…e sapevamo che per “i nostri vecchi” c’era il riscatto con un lavoro alla Breda o alla Pirelli”
Quella maledetta sigaretta…il dettaglio indispensabile di un viso stanco, rassegnato, che non sa più chiedere, un fascino raccolto, egoisticamente trattenuto, inciso, nonostante gli anni, da poche rughe, da occhi buoni, quasi che il bilancio l’avesse profondamente delusa, ma non avesse intaccato la sua anima.
“Cantare…papà mi portò in un cabaret in via santa Sofia, un evento straordinario, Milly cantava Stramilano, perché Milano era davvero straordinaria, e Milly era la voce imperiosa di un domani straordinario, piccola, ossuta, senza gesti, offriva se stessa, e il suo amore per la città…Mi chiamarono alla Magolfa, alla Conchetta, giù ai Navigli e poi nei Centri per anziani, anche nelle balere fuori porta c’era un ritaglio di serata e quello S-T-R-A-M-I-L-A-N-O toccava il cielo, un’invocazione, un inno. Erano i primi anni 60, le canzoni popolari ci davano forza e fierezza, soprattutto con un bicchiere di vino. Sposai un uomo distinto, sempre con la cravatta, le scarpe inglesi sempre lucide, incontrato in una balera, un tanghero quasi professionista e si dichiarò in inglese dopo un “Amado mio” di passione. Diceva a tutti di essere un mediatore, un uomo d’affari che aveva girato il mondo…Era un truffatore, un fior di professionista e venne arrestato dopo due anni di matrimonio, una mattina all’alba, nella nostra casa di piazzale Istria, all’improvviso, nel gelo di una giornata d’inverno. Ritornai a casa.”
La notte ha pianto con lei, avara di stelle, fredda di nebbia, interminabile. La resa dei sogni, dei progetti. No, non doveva finire così.
“Oggi sono sola, elemosino sigarette, faccio le pulizie in due bar dopo la mezzanotte, porto in giro il cane di chi non lo può fare, durante il giorno, tutti sanno chi sono e che cosa so ancora fare a questa età. Gli uomini? Un diversivo ogni tanto, quando ero più giovane, ma non ho mai venduto il cuore. Le foto sono chiuse a chiave in un cassetto…La mia vita…quella vita.”
Un’ultima sigaretta, ma che sia lenta a morire.
Nene Ferrandi (da Voce Blu – blog di Letteratura Arte e Spettacolo)
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano
toccante ritratto di una milanese di periferia che racconta i suoi sogni, ricordi, illusioni, speranze,condivisioni
Trustemente bello