Più che settantenne il regista Giordana non si è sottratto alla tentazione di firmare ancora una volta con il suo cinema i grandi eventi di cronaca nera del nostro tempo. Dopo le stragi di Piazza Fontana e dell’Heysel, gli assassinii del commissario Calabresi, degli attori Ferida e Valenti, di Pasolini, del giornalista Impastato e vari terrorismi, si è cimentato ora con l’omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne bergamasca ritrovata assassinata nel 2011. In Yara il regista narra delle indagini e del processo che ha condannato all’ergastolo il conterraneo 44enne Bossetti, muratore di Mapello, con la prima sentenza del 2016 (reiterata nel luglio 2017, nel 2018 e timbrata nel 2021 con il rigetto di tutte le istanze difensive).
Ad onta del titolo, la protagonista non è la vittima però, e non lo è nemmeno il colpevole, sbrigativamente immortalato, in posa alla Corona, in tanning room, come mostro sicuro, un Girolimoni dei nostri tempi. La protagonista è la magistrata inquirente; anzi la sua lotta quotidiana, di madre di una bambina, di funzionaria circondata da colleghi e sottoposti maschi, critici e zittoni, di boxeuresse dilettante, di lavoratrice preoccupata dei risultati dell’indagine a pochi mesi dal rischio dell’archiviazione del caso. Quello della donna commissaria, inquirente e poliziotta è ormai un topos consolidato dei nostri tempi, importato dagli States e diffusosi ampiamente nei diversi paesi europei, con tassi di muscolarità cangianti a seconda dei contesti geografici. Più in generale le magistrate sono già numericamente prevalenti nei tribunali, 5.308 (54%), e con un’età media inferiore vs i 4.479 colleghi maschi. Si potrebbe smetterla con il ritratto di ambienti macho. La commedia dell’arte internazionale è già più avanti, alle prese con nuovi conflitti, quali la giudice bianca contro quella nera, oppure della poliziotta bionda contro l’indiana o la latina.
Stancamente qui ci si limita a enfatizzare l’innocenza del primo imputato extracomunitario che politica e comunità locali, quasi istintivamente, sarebbero state ben liete di accusare. Le traduzioni dall’arabo intercettato si rivelano ridicolmente errate e fanno venire in mente altre cantonate dedotte dalle trascrizioni di telefonate in dialetto se non addirittura riassunte dal vivo al volo su notes improvvisati. Questo non è un processo per intercettazioni; siamo nei pressi della Val Brembana che con Cuneo mantiene lo status, Totò e Cochi &Renato docent, di un’Italia rara, quella usa ubbidir lavorando (che in sé include il tacendo). Tutti lavorano a muso duro, preoccupati prima della ragazza scomparsa, poi addolorati della sua feroce dipartita; le indagini ne risentono, indispettite da questo stano tipo di omertà che non denuncia perché non ha niente da dire. Ci vuole un colpo di fantasia ed il ricorso alla tecnologia scientifica per fare dei passi avanti ma anche qui il contesto non aiuta. Il Dna ricavato sul luogo del delitto non s’accoppia con niente; qui sono tutti irreprensibili, non ci sono schedati, anche la fantasia gossipara è scarsa. Eppure, nei decenni precedenti per sfatare il mito che mafie e camorre fossero specifiche dell’Italia meridionale, a Milano avevano dato il buon esempio, cercando un estesa presenza n’dranghetista. Il film non fa riferimento alla denuncia pubblicata nel 2013 nel libro Zero Zero Zero dallo scrittore Saviano secondo il quale il padre di Yara, dipendente di azienda n’dranghetista, sarebbe stato punito per testimonianza contro i datori di lavoro. Confessioni che non si sarebbe mai svolta proprio come le querele prima presentate, poi vengono ritirate.
Sulla base della svolta fantascientifica, il caso, che già aveva fatto impazzire il genere morboso delle inchieste giudiziarie svolte in tutta autonomia dalle redazioni Tv, assume un volto enfatico. Alla ricerca del Dna anonimo viene passata al setaccio la popolazione delle valli, che docile e silente si sottopone all’esame, con sguardo bovino ma poco convinto. Finché dopo una spesa di centinaia di migliaia di euro, si trova una pista in un uomo, anzi nel suo cadavere, che porta alla scoperta di una figliolanza extraconiugale e quindi all’imputato poi condannato. Uno dei momenti migliori del film è il dialogo tutto femminile, tra magistrata e biologa da un lato, e l’anziana vedova, dall’altro, nel quale le prime due cercano di strappare la confessione delle corna. Si intuisce che matrimoni e tradimenti restano in cima alla condizione dell’uomo sulla terra. La riproduzione cinematografica è però moderatissima. In realtà le accuse al morto di essere fedifrago, alla vedova di essere tradita, forse connivente, al figlio di non essere tale dai genitori ufficiali furono assai più roboanti e si completarono con quelle di scarsa moralità alla moglie dell’imputato che peraltro non aveva parte nella vicenda. C’era all’epoca un senso di disappunto, rivolto dall’Italia intera verso questo pezzo di tedeschia nostrana. L’imputato, pur essendo solo manovale, era iperariano, biondo dagli occhi chiari, prestante e pure sposato con una bellissima donna bionda. Troppo da poter essere tollerato.
Nondimeno il film ci risparmia questo massacro del buon nome brembano perché si attarda sempre sui drammi personali della magistrata, sostenuta al momento giusto dai suoi collaboratori, zelanti e zittoni. Viene immaginato il pericolo di disastro in cui potevano incorrere le istituzioni senza l’individuazione di un colpevole che la stampa locale corre a denominare favola per la nomea di bugiardo matricolato. Vengono risparmiati i paroloni da laboratorio come mitocondriale, ma non come aplotipo; lo spostamento del corpo di Yara, le polemiche sui ritardi di esame del Dna e sulla distruzione delle tracce decisive. Assente la folla di 711 testimoni venuti a sostegno dell’imputato. C’è però la manipolazione della ripresa video del furgoncino bianco del Bossetti, divenuta un loop di passaggi montati apposta dal Ris. Falsa del tutto appare l’interpretazione della moglie dell’imputato che nel film sembra voler strappare al coniuge una confessione; lei che nella realtà aveva confermato la presenza del marito a casa la sera del delitto. Il film non prova nemmeno a rispondere a spontanei interrogativi sulle modalità di aggancio della vittima, sulla stessa morte, avvenuta per assideramento o sull’assenza di segni di violenza carnale che contraddicono le avances a sfondo sessuale indovinate più che accertate dai giudici.
Non importanti i coinvolgimenti casuali di Feltri e di Taormina, cui si era rivolto un disperato Bossetti o quelli di Meluzzi; nemmeno di Alfano, nel 2014, ministro degli Interni, che anzitempo volle festeggiare l’arresto oppure di Bonafede, ministro della Giustizia nel 2019, che volle mandare la Nostra davanti al Csm per la partecipazione della magistrata al docufilm Murder in Italy della rete Bbs per Sky Atlantic, girato durante il primo processo e andato in onda nel 2017 prima del terzo grado di giudizio. Giordana non avrà avuto piacere di essersi visto preceduto ma si sarà rifatto con pennellate d’autore, quali la pratica dell’aeromodellismo in volo e il lavoro tenace della borsista non pagata. Grigia e sorda, scorre così la rappresentazione della migliore giustizia del mondo, come la immaginano ora anche a Netflix. Dubbi sulla indipendenza e imparzialità, nessuno. Neanche sulla capacità di tessere indagini, che infatti, come da verità storica, non ci sono state.

Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.