Decisiva sarà la sentenza; per la sorte degli onorevoli di prima nomina e per quella, molto meno importante e considerata in Parlamento, del Paese stesso. La questione è quella della pensione ai deputati, ai quali molti sostengono sia appesa la sorte del governo e finanche la battaglia per il Quirinale. La legge dice che fino a settembre del 2022, quando la legislatura finirà i quattro anni e sei mesi previsti, gli eletti non matureranno il diritto alla pensione. Questo è un impedimento all’elezione di Draghi a capo dello Stato, perché la premiership vacante potrebbe voler dire urne anticipate, visto che è improbabile che l’attuale scombicchierata maggioranza possa accordarsi su un altro presidente del Consiglio. Ma ecco che un verdetto del Consiglio di Garanzia di Palazzo Madama arriva a semplificare il quadro, sancendo il diritto al riscatto e all’assegno a prescindere dalla durata effettiva del mandato. È giallo, perché il Consiglio di Giurisdizione di Montecitorio stabilisce l’opposto, ma nessuno scommetterebbe un centesimo che alla fine a prevalere sarà la soluzione più sfavorevole alla cosiddetta casta. La quale, nel frattempo, è impegnata a dimenarsi e far finta di litigare, manovra di distrazione di massa. Le pensioni sono il simbolo dell’Italia, il concentrato di tutte le sue assurdità. Nessuno sa, quando potrà ritirarsi. Capita che persone della stessa età e con la stessa professione vadano in pensione a un lustro di distanza per un paio di mesi di lavoro o di età in più o in meno. Per anni, quelli grassi, siamo stati l’unico Paese al mondo che mandava la gente in pensione con il sistema retributivo, che calcolava gli assegni sugli ultimi, ricchi, stipendi anziché sui contributi versati. Per anni abbiamo anche consentito alle persone di ritirarsi dopo quindici anni di lavoro. Poi abbiamo fatto una serie di mezze riforme, nessuna risolutiva, tant’è che dopo due o tre anni già si parlava di rimetterci mano. Tutte sono state votate a salvare i diritti quesiti, quelli di chi aveva gli assegni più ricchi e disancorati dai soldi versati, a discapito delle nuove generazioni. Nel mentre, lady Fornero ha fatto quadrare i conti lasciando senza assegno per un assetto e passa oltre 300mila esodati e aumentando da 15 a 20 gli anni di versamento per aver diritto all’emolumento, con tanti saluti a chi si era ritirato contando sulla legge. Il governo gialloverde, con la famosa quota 100, promessa elettorale di Salvini, ha regalato a un paio di annate fortunate l’occasione di tagliare la corda anzitempo ma ora Draghi ha dichiarato finita la festa: aumentano gli anni da lavorare e con essi i contributi; in compenso diminuirà l’assegno e viva l’Italia. Ma c’è chi dice no: la ridotta del Senato. Mentre Draghi rivede in peggio i bonus sull’edilizia, infierisce sulla previdenza, progetta nuove tasse sulla casa e la quarta ondata di Covid è alle porte, nel mondo a parte del Parlamento si discute solo delle onorevoli pensioni: dai che ce la facciamo anche stavolta a sfangarla anche se andiamo via anzitempo. E sia, paghiamoli, paghiamoli caro, purché se ne vadano. La politica è in crisi, ma un Parlamento peggiore di quello attuale, con un 34% di scappati di casa, dalle prossime elezioni, comunque vada, non potrà venire fuori.
PIETRO SENALDI (Libero)
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845