Fulvio Irace e Milano, una città da amare, da preservare, per non dimenticare la sua Storia. E nella riedizione del suo libro “Milano Moderna” cavalca gli anni dal 1947 al 2021 attraverso l’architettura, l’arte e implicitamente l’influenza politica del tempo.
Fulvio Irace è architetto, professore ordinario di Storia dell’Architettura al Politecnico, da sempre analitico osservatore e studioso. Da sempre, nei miei ricordi, per le numerose pubblicazioni che i colleghi commentavano con stima. Se mi è concesso, una garanzia di competenza e di obiettività. Pone con garbo, ma rigore, interrogativi per riflettere, evidenziando il valore della memorie e dell’identità di questa città, che non possono essere tradite. E la conversazione diventa un viaggio di conoscenza, una presa d’atto delle criticità attuali, una prova d’amore per la città e per l’Architettura.
Il cuore del volume rimane la forza di Milano, la sua capacità di proporsi, nelle contingenze più difficili del suo sviluppo, come laboratorio di una cultura non convenzionale, pragmatica e anti-ideologica, che si apprezza sia nell’efficacia dei singoli edifici che nel carattere di una di una diffusa e colta coralità.
Il vero tema del libro, il suo cuore, è quella ossessione per l’essere assolutamente moderni che ha caratterizzato Milano sin dall’epoca della unificazione del Paese, quando la città si propose di diventare un modello di sviluppo per il resto dell’Italia. Il mito della cosiddetta “capitale morale” voleva essere un risarcimento per il mancato riconoscimento politico a livello nazionale, ma anche la conferma di un destino che i milanesi ebbero la pretesa di costruire con le proprie forze e co le proprie ambizioni. Essere moderni voleva dire portarsi al livello delle più evolute nazioni europee, nella smisurata e continua ambizione di Milano di misurarsi direttamente con l’idea di città-capitale oltrepassando la realtà della sua dimensione regionale. Questa ambizione si è servita da sempre dell’architettura come medium di una visualità condivisibile, dove la forza quasi leggendaria della tecnologia e dell’innovazione diventavano conferma dell’orgoglio e del primato cittadino. La Galleria (opera di un architetto “straniero”, il bolognese Mengoni) ne fu forse la più eclatante manifestazione, cui partecipò, con straordinaria anticipazione sui tempi, anche il capitale internazionale: elegante, ardita, invasiva, funzionale, la Galleria fu il primo motore della città che saliva, che il futurista Boccioni celebrò nelle sue note rappresentazioni. La forza del lavoro che rivolgeva la città dalle radici.
L’architettura parla nel suo libro e anche la “milanesità” che ha ispirato gli architetti, dalle costruzioni pionieristiche del dopoguerra a City Life, ma la coerenza è sempre stata rispettata?
Nell’ultimo capitolo di Milano Moderna propongo una riflessione sui modi di trasformazione della città nei decenni della ricostruzione postbellica e i questi recenti segnati dall’Expo 2015. Senza voler procedere a giudizi di valore, faccio notare alcune differenze strutturali: all’indomani della fine del conflitto mondiale, sulle rovine di Milano si accese un dibattito che portava l’eco della stagione razionalista, dell’avvio dell’urbanistica come disciplina scientifica della crescita urbana, della discussione sulla funzione dell’architettura come dispositivo di riequilibrio sociale . L’associazionismo ( prima tra tutti l ‘MSA) favoriva la creazione di un clima di condivisione e di scontro che ebbe il pregio di mettere in chiaro le posizioni dei singoli e dei gruppi, in modo da formare un’opinione condivisa con cui affrontare la riconversione della città distrutta nella città del domani. Questo diede agli architetti una coscienza e una forza di negoziazione che ebbe un certo peso nel rapporto tra committente e professionista: Caccia Dominioni, ad esempio, fu architetto di grande affidabilità per gli investitori immobiliari, ma fu capace al tempo stesso, di portare le loro esigenze speculative entro il recinto di soluzioni decenti ed accettabili. Riuscì addirittura a creare autentici capolavori che quasi fanno dimenticare l’originaria natura speculativa per accedere a una dimensione di fertile creatività.
Ponti costruì il Pirelli confrontandosi direttamente con l’ingegner Leopoldo: oggi si fatica ad immaginare chi siano stati i veri interlocutori dei costruttori delle torri di City Life e di Porta Garibaldi. La natura dell’investimento non si piò ricondurre a una famiglia o a un singolo, ma a un anonimo coacervo di fondi che vanno gestiti come azioni in borsa con un rientro immediato dei capitali. I tempi dell’architettura si sono ridotti all’osso e per gli architetti stranieri che costruiscono a Milano non c’è tempo ( e forse voglia) di capire la natura della città. Delle sue strade, delle sua abitazioni storiche. Questo conferisce ai nuovi interventi un carattere ibrido e quasi sempre imposto dall’alto: si spezza volutamente la catena della storia provocando una duplice reazione: da una parte i critici, dall’altra gli entusiasti di un modernità di totale importazione.
Nella sua analisi e rivalutazione culturale del progetto che valore viene dato alla memoria e alla modernità?
La modernità tra gli anni 50 e 60, fu l’esito di un’incredibile esperimento di mediazione tra l’eredità del razionalismo prebellico e la volontà di superarne gli aspetti più dogmatici mitigandoli con l’ascolto dei luoghi e la collaborazione con gli artisti. Soprattutto nella costruzione del nuovo tipo di abitazione condominiale, ci fu uno sforzo incredibile di elaborazione di modelli che risentivano anche della nascente cultura del design per la formazione di una domesticità antiretorica e “leggera”. La memoria era ancora un filo da tessere in maniera fruttuosa ed Ernesto N. Rogers – docente del Politecnico e direttore di Casabella- ne fece il cardine del suo manifesto delle “preesistenze ambientali”. Oggi il tema è poco sentito o sentito solo da pochi: le due architette di Grafton Architectsnel disegno dell’ampliamento della Bocconi , hanno sentito d doversi confrontare con la Milano di pietra dell’Ottocento, come anche Herzog&deeuron nella Feltrinelli di via Pasubio. Analogamente Chipperfield nella riconversione dell’Ansaldo nella sede del Mudec, ha ripensato la tradizione della Milano dei cortili cantata da Stendhal. Non mi pare che in altre parti della nuova Milano ci siano altre tracce di quest’atteggiamento riflessivo, quanto piuttosto l’imposizione d format tipici della globalizzazione
Oggi nella corsa al cambiamento c’è il rischio che Milano dimentichi la sua identità, etica e architettonica?
Questa frenesia del cambiamento ,alimentata soprattutto dalla speculazione finanziaria fuori di un autorevole controllo della gestione pubblica, sta dilagando sulla città dei decenni trascorsi come una fuovo di distruzione: abbattere per ricostruire e, se ci sono delle opposizioni , far finta di migliorare l’esistente facendosi scudo della “sostenibilità”, e quindi di fatto distruggendo alcune delle memoria più preziose della nostra identità milanese. Neanche Ponti è stato risparmiato, proprio quando la sua fama è diventata planetaria: nel mondo si organizzano mostre su di lui, a Milao si lasciano distruggere opere come l’ex complesso Ras in via Santa Sofia( con Piero Portaluppi) e l’ultimo capolavoro lasciato in eredità dal maestro qualche anno prima della sua morte: il palazzo degli uffici Savoia in via S. Vigilio, che rappresenta lo sfregio ( lo stupro) peggiore che si potesse riservare alla parte migliore della Milano o degli anni 70.
“Milano Moderna. Architettura, arte e città 1947-2021” è una eccezionale raccolta di testi e immagini sull’architettura di Milano, dalla ricostruzione del dopoguerra alla nuova città del XXI secolo.
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano
consiglio di prendere la bellissima mappa della Milano Navigli del 1873 e far lavorare sopra gli architetti dell’acqua,del verde,dei pompaggi.Abbiamo inviato al Comune di Milano la nostra idea di un Milano senza smog,senza piu’ isole di calore ,con tanta acqua e verde Poi soprattutto per San Siro siamo passati da una architettura piattisya ad unna mosa con parcheggi sotto colline verde dove l’intercapedine consente di coltivare il verde con cacate e laghetti.Poi abbiamo indicato la via dei Romani sull’acqua da riprendere spendendo poco Vettabbia-Lambro-Po-Adda-Lago di Como.Abbiamo spigato come produrre 750 TWh elettrici con i pompaggi e arrivare in battello a Genova via Naviglio -Ticino-Po-Tanaro-Chiuse e Voltri.