Paura, eh? Centoventi copertine dell’Espresso, gli hanno dedicato. E oggi ancora una, e quarantun pagine per dire “Lui no”. Un’ossessione che porta il nome di Silvio Berlusconi. Non è guerra politica e neanche giudiziaria o competizione imprenditoriale piuttosto che invidia sociale. È un po’ l’insieme di tutto questo. Ma è soprattutto e prima di tutto assalto alla persona. È inutile girarci intorno: in quel “Lui no” di oggi, a poche settimane dall’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, c’è la stessa subcultura del “cancel”, una sorta di razzismo al napalm per spazzare via chiunque non faccia parte del giro. L’individuo del presente e del passato, come si fa con i protagonisti della storia considerati politicamente scorretti.
Silvio Berlusconi ha dato fastidio da subito, a certi ambienti, fin da prima di entrare in politica. Ha reso un servizio utile il direttore dell’Espresso a dedicare le quarantun pagine dell’ultimo numero all’assalto a Berlusconi che fu condotto da un suo predecessore, Claudio Rinaldi, che spese tutte le sue energie e contribuì alla fine a portare Berlusconi a Palazzo Chigi, con una campagna di stampa forsennata e disperata e controproducente. Violenta e razzistica. Le vignette di Altan, quelle con la banana messa dove non dovrebbe essere, le battute sulla statura, sulle scarpe rinforzate, sul riporto dei capelli. Poi tutta la paccottiglia sull’arricchito, che è la versione volgare e disprezzata del self-made men, altrove portata a esempio di possibilità di crescita e successo delle società liberali e democratiche. I successi come imprenditore edile, i quartierini-modello di Milano 2 e Milano 3 dove tutti quelli che potevano, correvano a vivere, l’invenzione geniale della tv commerciale e persino la grandiosità del Milan: tutto è visto con sospetto. Berlusconi è una specie di gangster brianzolo: «Basette, riporto e revolver sulla scrivania. Si presenta così al pubblico l’imprenditore Silvio Berlusconi…», la didascalia a corredo di una foto in bianco e nero, in cui non si vede alcuna pistola, ma intanto il messaggio è scivolato tra le ciglia del lettore.
Gli articoli di Claudio Rinaldi e le copertine escono a raffica a partire dall’estate del 1993, quando si sospetta una possibile “discesa in campo”, nell’agone della politica, dell’imprenditore di Arcore. In realtà non è una grande intuizione giornalistica, visto che Vittorio Sgarbi, che aveva partecipato a qualche incontro di assaggio a villa San Martino, aveva spifferato la notizia urbi et orbi, annunciando anche che “il partito” c’era già. Esagerava, naturalmente, perché Berlusconi in quei mesi e prima di decidere, aveva speso ogni energia perché qualche democristiano come Martinazzoli si facesse avanti a raccogliere l’eredità politica ed elettorale dell’intero pentapartito, spazzato via dai capitani coraggiosi di Mani Pulite. Esagerava Sgarbi, ma intanto in tutta Italia imprenditori, professionisti, manager e impiegati di ogni livello venivano “testati” davanti a improvvisate telecamere perché fossero pronti, non solo per preparazione politica, ad affrontare la campagna elettorale del 1994.
I concetti sparati come pallottole su ogni numero dell’Espresso erano sempre gli stessi. «Così ama presentarsi il potere berlusconiano –scrive Rinaldi il 13 giugno 1993-: imperiale e discreto, duro e candido, spietato e amichevole. Un fenomeno raro, anzi unico. Indescrivibile, se non con ricorso ai concetti- limite del pensiero politico del Novecento, alla ‘dittatura democratica’ di Lenin, alla ‘tolleranza repressiva’ di Herbert Marcuse». Le sue idee, i suoi programmi sono “dozzinali”, le contrapposizioni tra società liberale e statalismo sono superficiali “balbettii”, i valori sono “banali”. In questo modo, con giudizi elargiti “ex cathedra”, si propaganda un messaggio totale sulla personalità del Nemico. Dopo averlo descritto con la banana e la pistola, le basette e il riporto, si comunica che questa sorta di avventuriero ha pensieri superficiali e rozzi, sempliciotti e approssimativi. “Minus quam merdam”, si sarebbe detto ai tempi della goliardia universitaria.
Claudio Rinaldi era un uomo intelligente e un giornalista esperto. Il suo tentativo di demolizione dell’uomo Berlusconi, prima ancora dell’imprenditore o del politico che stava nascendo, avrebbe potuto avere successo in un altro periodo della storia e anche con una persona diversa. La campagna dell’Espresso non aveva tenuto conto del fatto che Berlusconi, prima ancora di candidarsi, aveva già vinto. Perché era un imprenditore di successo e la suggestione del milione di nuovi posti di lavoro era più forte di qualunque assalto alla sua immagine. Gli italiani erano stanchi dei giochi della vecchia politica, e forse anche di una sinistra aristocratica con il naso all’insù. Cercavano proprio qualcuno che li facesse sognare “con il sole in tasca”.
Pare un paradosso, ma anche il famoso “conflitto di interessi”, agitato con ossessiva ripetitività in quegli anni, ha finito per giovare a Berlusconi, per rafforzare la sua immagine di vincente. Del resto, nel mondo intero e per diverse ragioni, è forse lui l’italiano vivente più conosciuto. Certo non lo era, in quegli ultimi mesi del 1993 e nei primi del 1994, il leader del Pds Achille Occhetto, che pure in quell’autunno aveva vinto le amministrative in tutte le grandi città, ma che fu sonoramente sconfitto alle politiche del 27 e 28 marzo. La lezione non è servita, eppure qualcuno come Umberto Eco li aveva avvertiti. Chissà chi vestirà oggi i panni di Eco, se le cose non andassero come desiderano, trent’anni dopo, ancora quelli dell’Espresso. Anche Marco Damilano, il direttore di adesso, non è uno sciocco e ha una certa preparazione politica. Infatti, quando partecipa alle maratone nella compagnia di giro di Enrico Mentana fa la parte del vecchio saggio, quello che ha scritto libri sulla Democrazia cristiana e che in fondo rimpiange la Prima Repubblica. Due giorni fa, senza neanche nominare Berlusconi, ha detto che al Colle nelle prossime settimane vedremo o Mattarella o Draghi.
Non ha avuto bisogno di sparare “Lui no”. Quello lo fa di notte, quando dismette gli abiti del politico preparato e indossa quelli da direttore dell’Espresso. Quello che, oltre al titolo di una certa efficacia, non pare aver molto da dire. Anche se è riuscito a riempire un paio di pagine, di introduzione a Claudio Rinaldi. Ma un po’ di parole le ha spese a prender le distanze dall’antiberlusconismo di stile Travaglio, liquidato con aristocratica ferocia. Usa un trucco retorico, quello di esaltare Rinaldi come un grande del giornalismo, «di un’idea del giornalismo, del giornalismo dell’Espresso. Prima del Caimano di Nanni Moretti e di Franco Cordero, prima delle dieci domande di Giuseppe d’Avanzo». Poi, ecco la mazzata al travaglismo: «E prima anche dell’antiberlusconismo trasformato in marketing, tournée teatrale, paccottiglia editoriale, la stanca ripetizione infinita di luoghi comuni, di rivelazioni che non rivelano ma confermano, di carte inesplorate che esplorano il nulla».
Così finisce con il dire che questo “Lui no” è un po’ come il più famoso “Io so” di Pasolini, un grido di impotenza. Che sembra stare alle spalle della decisione dell’Espresso di fare una finta campagna elettorale contro Berlusconi, pubblicando solo gli articoli di trent’anni fa, con argomenti he oggi hanno poco senso. Tanto che, al termine della corposa lettura delle quarantun pagine, vien da dire: Berlusconi al Colle? Perché no?
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