Un membro della comunità ebraica di Amsterdam la ‘vendette’ ai nazisti per salvare la sua famiglia
Settantacinque anni dopo la pubblicazione del Diario di Anna Frank, un team di investigatori coordinato da un ex agente dell’Fbi pensa di avere il nome del delatore che spedì l’adolescente ebrea e la sua famiglia nei campi di sterminio nazisti. Sarebbe stato un ricco notaio ebreo, Arnold van den Bergh, a indirizzare la polizia nella soffitta di Prinsengracht ad Amsterdam dove la famiglia Frank visse per due anni in clandestinità per sfuggire al destino che i nazisti avevano riservato a decine di migliaia di ebrei olandesi. Le rivelazioni sono al centro di un libro, “Chi ha tradito Anne Frank”, della canadese Rosemary Sullivan uscito in questi giorni in vista dell’anniversario della liberazione di Auschwitz. Intervistato sulla Cbs, l’ex agente dell’Fbi Vincent Pankoke ha raccontato i metodi di avanguardia che hanno permesso di gettar luce su uno dei casi ancora aperti dell’Olocausto, forse il più clamoroso.
Durante l’occupazione nazista di Amsterdam, i Frank e un’altra famiglia avevano trovato rifugio in una soffitta della casa dove lavorava Otto, il padre di Anna. Due anni di speranze vissuti in clandestinità fino all’agosto 1944 quando la polizia fece irruzione nel sottotetto. Deportate nei lager, Anna e sorella Margot morirono di tifo nel 1945 a Bergen Belsen, la madre Edith a Auschwitz. Della famiglia Frank, Otto fu l’unico a sopravvivere. Ignoto, per quasi 80 anni, l’autore della soffiata. Van den Bergh aveva un ruolo chiave tra i collaborazionisti come uno dei fondatori del Jewish Council, un organismo creato dai nazisti per tenere rapporti con la comunità ebraica. Pankoke è arrivato al suo nome con l’aiuto di un ‘dream team’ tra cui uno psicologo, un investigatore di crimini di guerra, criminologi e “un esercito” di ricercatori d’archivio: “Abbiamo cominciato compilando una lista di modi con cui la soffitta poteva esser stata compromessa. Era perché gli occupanti avevano abbassato la guardia? Magari facevano troppo rumore o erano stati visti dalle finestre? Oppure fu un tradimento?”.
In pensione dal 2014 dopo 30 anni passati a dar la caccia ai narcos colombiani che lo avevano portato anche in Olanda, Pankoke aveva letto da ragazzino il Diario di Anna Frank e l’esperienza aveva lasciato un segno. Contattato nel 2016 da un collega olandese a nome del documentarista Thijs Bayens e del giornalista Pieter van Twisk, non aveva esitato a imbarcarsi nell’indagine. Il ‘dream team’ aveva usato i metodi impiegati oggi per riaprire un cosiddetto ‘cold case’, ad esempio algoritmi in grado di scavare nelle connessioni storiche fra persone e programmi di intelligenza artificiale per mappare i residenti della zona: a pochi passi dalla palazzina di Princengracht abitavano membri del partito nazista e potenziali informatori. Particolare attenzione era stata riservata ai registri degli arresti perché “i nazisti sapevano come far parlare le persone”. Il nome di Van den Bergh, morto nel 1950, era alla fine emerso tra decine di sospetti perché’ l’unico componente del Jewish Council sopravvissuto allo smantellamento nel 1943 dell’organismo: gli altri furono spediti alle camere a gas, ma non il notaio che, secondo Pankoke, “si ritrovò nella necessità di offrire informazioni di valore ai nazisti per salvare se stesso e la famiglia e agì di conseguenza”. Altri elementi sono entrati in gioco nell’indagine. Nel 1963, in un’intervista con la polizia, Otto Frank disse di aver ricevuto un biglietto in cui il traditore veniva identificato proprio in van den Bergh. Pankoke é riuscito a rintracciare una copia di quel messaggio: “Non una pistola fumante”, ha detto l’ex agente dell’Fbi. “Ma una pistola ancora calda, e con la pallottola vicino”.
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