Il Cristo morto di Andrea Mantegna è una delle opere più sconvolgenti e rivoluzionarie della storia dell’arte. Un dipinto intriso di grande umanità. Storia, datazione, vicende, influenze.
Il 2 ottobre del 1506, Ludovico Mantegna, figlio del grande artista Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 1506), inviò una lettera al marchese di Mantova, Francesco II Gonzaga (Mantova, 1466 – 1519), nella quale l’erede del pittore (ed egli a sua volta pittore) proponeva al sovrano l’acquisto di un’opera rimasta tra i beni del padre dopo la sua scomparsa, così che la sua famiglia potesse estinguere un certo debito. L’opera citata era un Cristo in scurto, ovvero un “Cristo in scorcio”, e sarebbe finita l’anno successivo nelle collezioni del fratello minore di Francesco II, il cardinale Sigismondo Gonzaga: c’è un’altra lettera di Ludovico Mantegna, inviata a Isabella d’Este il 12 novembre del 1507, che documenta il passaggio (anche se le modalità rimangono tuttora poco chiare). Non abbiamo certezze solide e prove definitive e inoppugnabili, ma quel Cristo in scurto menzionato da Ludovico potrebbe essere l’opera passata alla storia dell’arte come il Cristo morto di Andrea Mantegna, uno dei dipinti più drammatici e rivoluzionarî del Rinascimento.
Nessuno, prima di Mantegna, aveva raffigurato un Cristo morto così ferocemente drammatico, così straordinariamente umano: un freddo cadavere appena deposto dalla croce, più che il figlio di Dio in attesa della resurrezione. Il corpo di Cristo è infatti adagiato su di una lastra di marmo rosso (è la cosiddetta Pietra dell’Unzione, dove secondo la tradizione cristiana la salma di Gesù sarebbe stata preparata per la sepoltura: lo intuiamo anche dal vaso d’unguento che vediamo sul bordo), ed è a malapena coperto dal suo sudario che, fatta eccezione per le gambe, lascia scoperto tutto il resto. Il riguardante può così osservare i segni delle ferite lasciati dai chiodi, che hanno bucato e lacerato la pelle delle mani e dei piedi. Sul lato sinistro del dipinto compaiono tre dolenti, dai volti solcati dalle rughe e caratterizzati dal segno duro e aspro di Mantegna, che versano copiose lacrime: sono la Madonna, che con un fazzoletto si sta asciugando gli occhi, san Giovanni, che piange con le mani giunte (particolare che accresce la tragicità della sua figura), e una donna che apre la bocca disperandosi, presumibilmente si tratta di Maria Maddalena. Ma forse, al di là dei personaggi che osserviamo nella scena, i veri protagonisti della composizione sono due elementi: la luce e la prospettiva. La luce proviene da destra e fa risaltare le pieghe rigide del sudario, creando forti contrasti con le ombre, così che l’attenzione dell’osservatore si possa concentrare sui dettagli più crudi del dipinto, a cominciare dalle stesse ferite di Gesù: è una luce che ha quasi uno scopo narrativo e che contribuisce ad alimentare il dramma e la partecipazione emotiva di chi guarda l’opera mantegnesca. Lo stesso si può dire per la prospettiva. Mantegna è stato uno dei più grandi maestri dell’illusionismo prospettico, e dà prova delle sue eccezionali abilità anche con il Cristo morto.
Rompendo totalmente con la tradizione, Mantegna offrì una rappresentazione inedita del tema del Compianto sul Cristo morto, sperimentando un punto di vista che nessuno prima di lui s’era spinto a osare. È come se noi entrassimo nell’ambiente in cui il cadavere di Gesù è stato trasportato e Mantegna avesse voluto renderci testimoni diretti di quello che sta accadendo, ponendoci di fronte a Cristo, per vederlo frontalmente, con punto di vista leggermente rialzato. Il corpo di Cristo, tuttavia, non ci appare deformato, come risulterebbe da un’immagine veridica, da una fotografia: per ottenere gli effetti ch’è stato in grado di raggiungere, Mantegna ha dovuto discostarsi dai canoni della prospettiva albertiana per sottometterli alla sua volontà di creare un artificio onde evitare che il corpo di Gesù assumesse contorni grotteschi. Se l’artista infatti si fosse attenuto in maniera ligia alle regole della prospettiva, i piedi sarebbero stati molto più grandi, la testa più piccola e il corpo più compresso: al contrario, Mantegna è “arrivato a realizzare l’adattamento delle proporzioni per via empirica, al fine di mantenere la dovuta dignità alla figura di Cristo” (così lo storico dell’arte Peter Humfrey che riprende le considerazioni dello studioso Robert Smith, autore di importanti pagine sull’opera dell’artista veneto).
Federico Giannini, Ilaria Baratta (Finestre sull’arte)
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