L’epoca del trauma

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Il trauma, inteso come super stress, pervade la vita contemporanea. Sui media e nelle conversazioni ogni esperienza ed evento si fa traumatica. Asserisce Giglioli, docente di letteratura comparata bergamasco, siamo nell’epoca del trauma senza trauma (nel Senza trauma, scrittura dall’estremo e narrativa del nuovo millennio 2011). Il trauma era ciò di cui non si può parlare. Trauma è oggi tutto ciò di cui si parla. Era un segreto vergognoso, in cui si sprofondava; oggi domina la comunicazione del mondo, è certificazione ed autenticazione del senso. È l’esperienza veramente vissuta, significativa, degna di essere trasmessa, commentata, condivisa.

In origine c’erano l’isteria borghese femminile, quella che nei secoli passati si era mescolata alla caccia alle streghe ed all’impossibilità di partorire. Il dibattito in circoli ristretti di psicodinamica e psicoanalisi non godeva di credito in medicina. Poi l’espansione tecnologica della rivoluzione industriale produsse milioni di invalidi incidentati, con riconoscimento della sua quota di nevrosi traumatica maschile. La questione sociale dell’incidente sul lavoro pose l’esigenza del moderno stato previdenziale. La Germania creò l’Ufficio Assicurativo Imperiale nel 1884, seguita dagli altri europei nei successivi venti anni (l’Italia nel 1898) che cercarono di tutelare the wounded soldiers of industry (Luckhurst 2008). La normalizzazione dell’accidente, sulla base dell’infortunio sul lavoro, esplose però con la Grande Guerra (con le avvisaglie della sanguinosissima guerra di Crimea che originò la Croce Rossa) divenendo pietra angolare del welfare state.

Milioni di membra strappate dalle granate in trincea, primo grande shock globale dell’Occidente causarono la rimozione isterica di massa del pericolo esterno della nevrosi di guerra, che Freud distinse da quella di pace (StudienüberHysterie1895, Progetto di una psicologia 1885e Introduzione a Psicanalisi delle nevrosi di guerra ‘19). Proprio Freud fu l’ultimo a considerare la guerra un naturale istinto umano, ineluttabile e autodistruttivo ma mitigabile dall’identificazione con l’altro (Perché la guerra ’32). Dopo la II guerra Jung, in Wotan ’36 e Dopo la Catastrofe ’46,degradò i tedeschi (e gli uomini) ai culti primitivi. La II Guerra mondiale proseguì l’esperienza della Grande Guerra; il Vietnam allungò il ricordo della II Guerra assieme alla lezione psichiatrica dell’Olocausto. L’Olocausto, trauma centrale del secolo ((Trauma. A Genealogy 2000 di Leys) veniva a rendere tutti sopravvissuti. La sua eredità mandava in orbita il trauma, volano e base per indignazione morale e politica, perenne prevenzione, preoccupazione esistenziale, paura del disastro, valutazione rischi perpetua, colpevolizzazione propria e altrui, caduta del senso di scopo e di identità. L’Olocausto è evento che mette alla prova le categorie concettuali e di rappresentazione tradizionali tra bisogno di verità storica, racconto non banalizzante ed imperativo etico di testimoniare ciò che è al limite della rappresentazione.

Il pensiero procedeva per vie tortuose. Innanzitutto, contro la guerra, i bellicisti ed i conservatori, come Adorno della scuola di Francoforte, ne La personalità autoritaria ‘50 e Fromm nell’Anatomia della distruttività umana ‘73, che suonano a condanna di ogni destra. Più preciso in questa linea di pensiero, Fornari (Psicoanalisi della Guerra ‘66) equiparò leopardianamente parto e morte, paranoia e guerra, depressione e padre padrone di madre-bambino. Nel movimento antiautoritario i tempi erano maturi per la repressione sessuale di Reich, foriera della manipolazione alienante di guerra, quando l’Olocausto tornò alla ribalta, o meglio apparve per la prima volta al grande pubblico, con il caso Eichmann ’61 (il processo, il documentario, il reportage della Arendt, il film sul documentario). Nei 34 giorni del processo si afferma una storia collettiva validata e legalizzata; insieme, nel coma o nel silenzio delle testimonianze, si manifesta la sacralità dell’incomunicabile uomo memoria ritraumatizzato dall’incontro con un passato impossibile da rielaborare (On Testimony ‘94 della Wieviorka in Holocaust Remembrance, the Shapes of Memory di Hartman). Nell’80 il trauma viene riconosciuto patologia (Diagnostic and statistical manual of mental disorders della American Psychiatric Association).

Per la sopravvissuta francese Delbo in La mémoireet les jours ’85, solo la memoria traumatica profonda e corporea è reale testimonianza; così Levi ne I sommersi e i salvati ’91 descrive la memoria come un film in grigio e nero, iconica e non verbale, sonoro ma non parlato, fracasso senza significato. Incomparabile evento unico, non storicizzabile, non descrivibile né convenzionalmente spiegabile, l’Olocausto costruisce la teoria scientifica del trauma, dove alla dimenticanza dell’esperienza reale corrisponde il ricordo delle emozioni associate (The Intrusive Past, the Flexibility of Memory and the Engraving of Trauma ’95 di Van derKolk e Van derHart). Il film Shoah ‘85 di Lanzmann, il convegno ‘90 della Ucla, il Fortun off Video Archive for Holocaust Testimonies Project di Laub e Hartman, raccolta di interviste di sopravvissuti e testimoni alla Yale Univ ’92 (https://www.library.yale.edu/testimonies/index.html) e Probing the Limits of Representation, Nazism and the Final Solution ‘92 di Browning ed altri, evidenziano, la non rappresentabilità eticostorica dello sterminio attraverso i testimoni muti dell’esperienza traumatica dell’Olocausto da questo momento associato alla Trauma theory (e poi agli Holocaust studies).

Questa nasce non in psicologia ma in letteratura con l’Explorations in Memory ‘95 el’ Unclaimed Experience: Trauma, Narrative, and History ’96 della Caruth. Si propone il paradigma della svolta etica, in cui politica ed arte si assoggettano al giudizio morale, necessario contro l’amnesia postmoderna. Crisi identitaria e conflitti etnici della globalizzazione, poggiati sempre sulla memoria, fanno esplodere l’ansia di fronte all’incertezza (Memory, Trauma and War Politics, reflections on the Relationships between Past and Present 2009 di Bell). La Trauma theory e la disciplina dei controversi studi americani sul trauma (Trauma studies tra psicoanalisi, neuroscienza e critica letteraria) dalle radici della nevrosi di lavoro e di guerra dell’Europa industrializzata, studiate dalla psicodinamica e psicoanalisi, poggiano sul poststrutturalismo della scuola di Yale del ’66 e del decostruttivismo postindustriale di Lacan, delle teorie della repressione sessuale autoritaria e della alienazione consumistica fino alle procedure mediche del Post Traumatic Stress Disorder (PTSD) dell’80 ed al riconoscimento del trauma nel mondo del lavoro con l’accordo quadro europeo sullo stress lavoro correlato del 2004. Al costo sociale delle neurosi della classe lavoratrice (Shell shock and the Psychologists ‘85 di Stone in The Anatomy of Madness di Bynum, Porter, Shepherd) ed al soldato shockizzato, prima figura iconica di sopravvissuto, segue la psicosi generale della popolazione non militare e non ospedalizzata dovuto all’Olocausto. La nevrosi traumatica entra nel profondo del tessuto sociale (The Trauma Question 2008 di Luckurst).

Caratteristiche della società normali o discutibili vengono confuse e criminalizzate fino ad assumere caratteri mostruosi. Antisemitismo, conservatorismo, nazionalismo, convenzionalismo, sessismo, misoginia, disprezzo delle differenze, del confronto democratico e delle espressioni di fragilità e tenerezza vengono cercati e trovati anche dove non ci sono; poi associati in una bolla messa all’indice, assieme alla criminalizzazione dei bellicisti e della guerra. Ciò che è fisiologico nell’imperfetto mondo reale diventa patologico e la reazione patologica si fa fisiologica. L’uomo dell’epoca destrutturata del macchinismo globale è un perenne malato, infortunato esistenziale. Non vive direttamente la lacerazione improvvisa della protezione del suo proprio Io, ma interiorizza memoria e dolore altrui, vivendone ideologicamente e religiosamente il trauma intrinseco. E lo ritrova nel racconto delle emigrazioni, delle epidemie e dei conflitti che letteratura e dall’arte filtrano come drammi e traumi familiari e personali. Quando viene perseguito in modo eccessivamente sistematico, l’estetica del trauma si fa paradossale perché le unicità delle singolarità diventano categorie convenzionali (Luckhurst 2001). Al culmine della condanna della abituale gerarchia, connaturata all’organizzazione umana, giudicata spaventosa perché capace di produrre l’Olocausto; il folle, l’instabile mentale, lo schizofrenico sono valutati più umanamente positivi rispetto alle persone ordinarie, costrette sempre più massivamente, ed ad un’età sempre più bassa, ad assumere psicofarmaci e droghe per mantenere un equilibrio di convivenza con repressione e perdita della giustificazione etica degli istinti.

La nozione di trauma gode di una fortuna senza precedenti per essere divenuto paradigma politico e culturale. Non è propriamente vero che non ci sia guerra da 77 anni. Nei decenni l’accumularsi nella memoria dei reduci, dei santi maledetti, dei ragazzi del ’99, dei freikorps, delle marocchinate violentate, dei superstiti, delle centomila gavette, degli scemi di guerra, dei matti di Russia, dei sopravvissuti, della Corea, del Vietnam, del terrorismo ideologico, della Somalia, dei Balcani, dell’11 settembre, del terrorismo internazionale, dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria, ora dell’Ucraina, associato alle vittime di lavoro, dei deragliamenti ferroviari, di droga e dell’enfatico femminicidio ha prodotto ferite psichiche incommensurabili che si tramandano per molte generazioni.

A ribadire la memoria, e per esempio i processi cinquantennali, ci pensano i media dell’informazione e della fiction. Sistematicamente scene traumatiche aprono ogni rappresentazione mediatica (Trauma Fiction 2004 della Whitehead). La Trauma Fiction si incentra sul ricordo e sulle sue motivazioni (Unspeakable Secrets and the Psychoanalysis of Culture 2008 di Raskin, Translating Pain. Immigrant Suffering in Literature and Culture 2009 di Hron e Trauma et texte 2010 di Kuon). La narrazione ripetitiva, spezzata, silenziata, tra comunicabile e incomunicabile, conoscenza e sconoscenza, possibilità ed impossibilità di narrazione (Trauma culture 2003 Luckhurst)in forme e sintomi privi di profondità cronologica inducono lo stato vissuto dal traumatizzato (ansia, flashbacks, memoria labile). Le generazioni non coinvolte in guerra vivono e ingigantiscono il trauma con cui convissero le generazioni precedenti, effettivamente sfollate, affamate, bombardate, ferite. Il punto dirimente è che le attuali generazioni non trovano un motivo valido politico, religioso, diplomatico, nazionale per comprendere gli eventi, alò contrario degli antenati. Tutto, la storia, si riduce ad incubo immotivato(Writing History,Writing Trauma 2001 di La Capra).

In tempo di guerra, anche vissuta in remoto virtuale, le notizie militari tecniche, tattiche, strategiche sono trascurate e chi ne tratta rischia di impattare nel sospetto di profilo sadico maniacale. L’informazione, quasi fiction, inquadra i feriti, i bambini malati, i bambini, le partorienti, le donne, e tra i non feriti, i bambini, le donne, gli sfollati, persino gli animali; poi, dal lato nemico, i manifestanti, i dissenzienti e teoricamente gli arrestati, se fosse possibile vederli bene e intervistarli, infine i prigionieri pentiti; molto dopo i combattenti della guerra giusta, oscurati i nemici, anche quando si tratta delle loro mostruosità. Tutti esattamente in quest’ordine.

L’epoca traumatizzata non conosce storia, solo un incubo perenne acronico multidisciplinare emulti-tecnologico, retto da innumerevoli complotti; imputa gli eventi alla malvagità di dei in cui non crede, ne somatizza gli effetti e deve evadere dalla testimonianza etica necessaria ed insieme impossibile. Guarda la guerra e la confonde con l’orda dell’Occhio di fuoco Rosso. Guarda le serie di Tolkien come fossero guerre vere, pillole a portata di mano. 

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