Energia, ‘boom bollette ben prima della guerra’, il caso Unifond

Attualità
+360% per gruppo Brescia-Novara, Confartigianato: no aiuti a pioggia
Il salto in alto da una bolletta aziendale da 47.000 euro nel 2021 a una da 172.000 (+360%) nel 2022 non può rappresentare un passaggio normale, e neppure una conseguenza di un conflitto bellico che è iniziato solo a fine febbraio del 2022. Questo è l’esempio del conto chiesto alla Unifond, ma il problema può essere esteso a molte realtà. L’energia costa troppo, costa troppo in Europa e costa ancora di più in Italia, ma non può essere tutta colpa dei russi e degli ucraini. Il prezzo dell’elettricità è infatti aumentato in Italia dell’81,9% in un anno (da febbraio 2021 a febbraio 2022), con lievitazioni raddoppiate rispetto alla media europea sullo stesso periodo (+34,9%). Questo dicono i dati elaborati da Confartigianato, e non va molto meglio al comparto gas, il cui costo è schizzato del 64,4% in 12 mesi nel Belpaese, a fronte di un rincaro europeo fermo al 41,4%. Il quadro insomma non è molto confortante e sembra che non valgano più motivazioni macroscopiche, dato il ritardo che nella fattispecie sembra essere tutto italiano.
Bisogna fare di più per contrastare i rincari energetici che stanno attanagliando la produzione manifatturiera italiana, e soprattutto evitare di legare questi rincari a una situazione contingente di conflitto tra Russia e Ucraina, perché non è così. Se ne è parlato questa mattina all’associazione Stampa Estera a Milano, dove il presidente lombardo di Confartigianato Eugenio Massetti era accompagnato dal direttore del centro studi Fiscal Focus Antonio Gigliotti, dal Ceo di Unifond Aldo Arici e dall’europarlamentare Paolo Borchia.
A questo, si aggiunge che la produzione di vetro, ceramica e cemento nazionale segna, sempre in base ai dati dell’osservatorio di Confartigianato, un -5,7% maturato tra dicembre e gennaio, a fronte di una ripresa invece visibile negli omologhi comparti francesi (+5,5%) e tedeschi (+8,1%). Ulteriore conferma che a gennaio non c’era ancora alcun conflitto, eppure il problema era già tangibile.
La situazione oltre a preoccupare e a richiedere urgenti misure, sembra anche piuttosto anomala: da una parte la sofferenza di un intero settore produttivo, dall’altra le motivazioni che non sono più troppo chiare, né funzionano più i metodi di ristori a pioggia, senza tenere conto delle diverse realtà presenti sul territorio.
Un esempio è dato dalle aziende cosiddette energivore come la Unifond, realtà subfornitrice terzista impegnata da più di 60 anni nella componentistica idraulica, un distretto composto di 20 aziende e 1.000 addetti tra Brescia e Novara. “La nostra è un’azienda energivora- racconta Arici alla ‘Dire’- e ciò vuol dire che questa voce per noi nel bilancio è pesantissima”. In Italia le aziende ‘energivore’ sono 3.500 circa, “e non tutte sono ad alta intensità”, ossia tutte quelle realtà dove l’energia rispetto al valore aggiunto lordo misura almeno il 20%. “Finché era a livelli accettabili da noi incideva al 20%, oggi siamo passati a più del 50%. Capite bene che con questi numeri siamo destinati a chiudere, oppure a iniziare una delocalizzazione. Noi siamo ancora attivi perché crediamo nell’intervento dello Stato”.
Nel 2020 Arici spiega come Unifond abbia aumentato a 3,5 milioni il fatturato con un programma di investimenti da 1,2 milioni e 10 assunzioni, tutto questo trascinati dalla convinzione della ripresa post-pandemica e ignari del caro-energia lì appostato, dietro l’angolo: “La sorpresa è arrivata poi a metà del 2021 quando l’Ucraina era lontanissima, e non ci vengano a dire che gli aumenti sono dovuti a quello, perché non è assolutamente vero”.
C’è poi un’altra questione: gli aiuti generalizzati, che rischiano di avere l’effetto di chi ‘sottolinea tutto il libro’, senza accontentare nessuno: “Le misure che lo Stato ha adottato ci hanno dato un beneficio di zero a vuoto- osserva il ceo di Unifond- perché avendo avuto nel 2021 un contratto a prezzo fisso non abbiamo subito aumenti importanti nell’ultimo trimestre, come previsto dal decreto Sostegni”. Infatti, il credito d’imposta secondo il decreto Sostegni è riservato solo alle aziende che hanno subito nel primo trimestre 2021 degli aumenti dal 30% in su rispetto al primo trimestre 2019. “Noi- evidenzia Arici- non abbiamo subito aumenti del 30% ma del 300%, solo che li abbiamo subiti a partire da gennaio 2022”.
Ecco perché c’è la necessità di istituire un credito d’imposta che vada a compensare gli incrementi e che consideri il primo semestre del 2022, anziché quello precedente, oppure un azzeramento temporaneo dei contributi sul costo della manodopera. Insomma, “la politica deve capire che vanno sì aiutati tutti ma che, siccome non ci sono le risorse per tutti, bisogna dare qualche priorità, come sta accadendo in Germania, dove sono stati stanziati 100 miliardi per aiutare le imprese a rischio chiusura dove l’incremento dell’energia porta perdite, non solo l’erosione dei margini”. A questo, conclude Arici, va sicuramente aggiunta l’impossibilità di attuare la cassa integrazione in aziende subfornitrici, “perché non hanno un magazzino di prodotti che possono continuare a fatturare”, e quindi questo significa “ucciderle”.
(Fonte Agenzia Dire)

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