Alla fondazione Prada di Milano “Role Play”, mostra di giochi di ruolo e di identità

Cultura e spettacolo

Ironia, sarcasmo, denuncia sociale o semplicemente un modo per rendere reale una vita parallela. La mostra «Role Play» all’Osservatorio di Fondazione Prada fino al 27 giugno (e a Tokyo da Prada Aoyama) analizza ossessioni e pratiche delle personalità alternative. Con opere che abbattono anche molti pregiudizi

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Consciousness Engine 2: absentblack- fatherbot, 2014, installazione dual channel di Bogosi Sekhukhuni. Courtesy of the artist

Le ragazze e i ragazzi nelle strade di Tokyo vestiti con le divise scolastiche infantili o con i costumi dei mangam ma anche i tanti adolescenti e adulti che si credono Superman e ne vestono i costumi. Ma anche chi nel privato di una camera da letto gioca al «dottore e all’infermiera». Tutti uniti nel mondo di fantasia dei giochi di ruolo. Non sempre si può essere quello che si desidera apparire, ma è sicuramente lecita l’aspirazione a vestire i panni di personaggi o a impersonare ruoli che le cose della vita non hanno riservato a chi vi aspira. Tanto più che, contrariamente a quanto si possa pensare, l’aspirazione a vestire i panni di qualcun altro è molto diffusa. Che siano giochi di ruolo che prendono il sopravvento sulla realtà in ambiti molto privati, come quello sessuale, o che siano pratiche innocenti di persone che vivono vestendo gli abiti e credendosi personaggi della fiction o dei fumetti (si chiamano cosplayer), o ancora che ci si possa scaricare dalle tensioni quotidiane assumendo identità diverse create ad hoc per l’occasione.

role play mostra milano fondazione prada

Juno Calyps o 1 Juno Calypso Die Now, Pay Later, 2018. Courtesy of the artist and TJ Boulting

ROLE PLAY: LA MOSTRA ALLA FONDAZIONE PRADA

Alla Fondazione Prada di Milano, nella sede dell’Osservatorio della Galleria Vittorio Emanuele, fino al 27 giugno c’è Role Play (che fino al 20 giugno sarà replicata, con qualche variazione, anche nello spazio Prada Aoyama di Tokyo), la mostra curata da Melissa Harris che «esplora i processi di ricerca, proiezione e creazioni di possibili identità alternative e idealizzate». Niente di meglio che l’arte, quindi, per raccontare un fenomeno di costume di cui spesso ci si vergona o si preferisce non parlare per paura del giudizio degli altri. E, soprattutto, se le opere sono di artisti che, per generazione e provenienza culturale, si sono lasciati alle spalle pregiudizi anche nel modo di descrivere gli sterotipi di cui si occupano. Role Play è stata costruita con le opere di Meriem Bennani, Juno Calypso, Cao Fei, Mary Ried e Patrick Kelley, Beatrice Marchi, Darius Miksys, Narcissister, Haruka Sakaguci & Griselda San Martin, Tomoko Sawada, Bogosi Sekhukhuni, Amalia Ulman in un’installazione luminosa concepita da Random.

Vale la pena citare tutti gli artisti perché ognuno di loro contribuisce a creare questa «evasione creativa» che sarebbe risultata diversa senza qualcuno dei loro lavori. Perché, sottolinea Harris «i progetti che prevedono il gioco di ruolo hanno approfondito il concetto di identità permettendo a ogni artista di sfidare le norme di comportamento legate al genere, di viaggiare nel tempo e di immaginare il loro sé in una miriade di modi diversi». Quindi, il racconto stesso e non solo il percorso della mostra sarebbe stato diverso senza l’opera di Cao Fei che accoglie i visitarori. L’artista cinese, ormai tra le più osannate sulla scenda internazionale, presenta un video in cui i cosplayer agiscono per creare insieme un’isola socialmente rilevante perché giocando tra loro costituiscono un gruppo che non può essere isolato: i personaggi, infatti, costruiscono una storia surreale di combattimenti con superpoteri e spade magiche integrati negli spazi di una città reale.

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What To Do With a Million Years?, 2008, serie fotografica di Juno Calypso. Courtesy of the artist and TJ Boulting

WHAT TO DO WITH A MILLION YEARS?, UN LAVORO DI PURA FICTION

Molto diverso, invece, è il lavoro di Juno Calypso, 33enne artista londinese, che presenta la sua serie fotografica What To Do With a Million Years?, un lavoro di pura fiction: lei stessa si immagina di andare ad abitare in una villa di Las Vegas arredata come negli anni Settanta del secolo scorso, abitazione bizzarra costruita per essere un rifugio antiatomico di un gruppo che è alla ricerca dell’eterna giovinezza. I bagni hanno i colori delle piastrelle e dei sanitari in rosa o in azzurro abbinati al genere degli occupanti. In questo set l’artista si riprende, spesso riprodotta in più specchi, in un’ironica parodia di un personaggio a metà strada tra una escort che riceve in casa e una desperate housewife che si crede una bambola. Tra un’ironia e un’altra, molti artisti approfittano anche per trasformare il gioco di ruolo in una denuncia delle condizioni sociali. Nel video The Rape of Europa, Mary Reid e Patrick Kelley evocano due miti paralleli, quello mitologico che arriva dal rapimento di Europa sui monti dell’Atlante da parte di Zeus che per l’occasione si trasformò in toro (prendono il racconto dal quadro di Tiziano) e quello storico che arriva dall’analisi dell’attivismo femminile americano: incrociandoli riescono ad affrontare il tema dello sfruttamento dell’immagine femminile.

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OMIAI, 2001, ritratto dell’omonima tradizione giapponese di Tomoko Sawada. CREDITS OF THE ARTIST; COURTESY ROSE GALLERY

LA SERIE FOTOGRAFICA OMIAI

Alle stesso modo, è una denuncia con molta serenità degli stereotipi della sua cultura quella dell’artista giapponese Tomoko Sawada che porta in mostra la serie fotografica OMIAI . In trenta fotografie, l’artista si trasforma in altrettante persone diverse facendo uso di costumi, trucco, parrucche e perfino aumentando o diminuendo di peso. Un set curato deliziosamente e senza sbavature costruito per imitare alla perfezione e con naturalezza quello dei ripici ritratti «omiai», cioè le foto che nella tradizionale usanza giapponese servono per fare incontrare le coppie destinate ai matrimoni combinati: negli incontri preliminari, le famiglie si scambiano le foto dei loro figli nella speranza di combinare l’affare, ovvero di trovare il partner giusto. Le espressioni del viso, gli abiti, le pose di Sawada denunciano non solo una pratica avvilente (in realtà non solo per le donne) ma soprattutto gli sguardi hanno in sé il sarcasmo di chi non si rassegna.

Insomma, conclude la curatrice, «un alter ego, un personaggio o un avatar possono rappresentare delle aspirazioni, appartenere alla propria storia personale o culturale o richiamare un senso di alterità. Possono essere una forma di attivismo o un mezzo radicale per mettersi letteralmente nei panni di un altro». E così il role playing diventa una pratica per rafforzare le ossessioni per le identità alternative. O serve a illudersi, come dice il doppio video di Bogosi Sekhukhuni in cui due personaggi si parlano via Messenger credendo di essere figlio e padre.

L’articolo è stato pubblicato su Style Magazine n. 4/aprile 2022

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