C’è una rivolta del 2014 ed una guerra di popolo del 2019-20 per la libertà che hanno già perso. L’autocrazia vincente è ancora una volta in forte crisi economica e sotto una profonda crisi sanitaria. 5 punti sotto del manifatturiero, 7 per il manifatturiero delle piccole imprese, 5,1 punti in meno nei trasporti, 6 della produzione generale. Peggiorano logistica e catene di approvvigionamento. Ancora una volta l’autarchia in questione tiene per le mani una valuta poco significativa, ben lontana dall’essere presa in considerazione come moneta di riserva globale. Nei tempi grami di guerra ed epidemia le autarchie soffrono, è un classico, di fughe di capitali dovute a ristrutturazione, deprezzamento, rischio di investimento, deflussi di capitali stranieri (se ne va il 23% degli europei). Poi bisogna dire la verità, si può essere il fondamentale fornitore di energia o l’universale fabbrica per il ricco cliente occidentale ma l’unica valuta fondamentale è di quest’ultimo. Lo yuan, ad esempio, rappresenta meno del 3% delle riserve valutarie globali.
Le autarchie nascondono i loro grossi problemi sanitari e d’altronde le statistiche trasparenti e complete non sono mai state un loro forte. Non usano i vaccini occidentali, piuttosto misure brutali e caotiche sulla popolazione. Magari vantano un pugno di morti ufficiali contro i milioni di vittime occidentali ma intanto si tengono città disfunzionali, chiuse e prigioniere di decine di milioni di persone (505 milioni nelle città di primo, secondo e terzo livello), a rischio infezione nelle file dei test molecolari di massa. Una guerra interna da $ 257 miliardi, equivalente del 1,5% del Pil della seconda economia del mondo, che coinvolge il blocco del più grande porto al mondo per volume di container.
Non era la Russia più in spolvero economico degli ultimi anni ad attaccare l’Ucraina. Non è stata la Cina più formidabile ad ingoiarsi Hong Kong, che fu un pezzo d’Occidente in Asia. L’8 maggio si presenta come unico candidato a chief executive dello Hksar, regione amministrativa speciale di Hong Kong, l’ex poliziotto cattolico 65nne Lee Ka-chiu, protetto da 7mila agenti e da Pechino, di fronte a 1.461 grandi elettori. L’Hong Kong, che parteciperà dell’Area della Grande baia con altre 10 metropoli, perdendo identità e primato competitivo, per ora conserva di un grande secolo di storia, solo la Borsa. Dopo il fermo del 2004, la guerra cinese di controriforma è passata sopra il boicottaggio dei democratici, ha castrato i media hongkonghesi indipendenti, schiacciato il movimento del 2019-20 come un problema di traffico o e di quarantena al punto da potersi permettere il perdono, a patto di ammettere il deviazionismo kuomintanghista dei rivoltosi studenti incarcerati degli ombrelli. La dekuomintanghizzazione ha proceduto tramite le nuove leggi elettorale e di sicurezza nazionale, con lo spettro della fallita blokade sanitaria di Shangai, sulle cui amministrazioni si addensano nuvole di purghe imminenti. Nel prossimo quinquennio democrazia, rappresentanza, dialettica e riforme, un tempo pane quotidiano di Hong Kong, saranno scordate per sempre.
Paradossalmente la Cina mediatica ha costruito un mito su un personaggio di Hong kong, Ip Man, il maestro del kung fu di Bruce Lee. Yip Man studiò da adolescente ad Hong Kong, vi riparò da Foshan, sotto l’occupazione giapponese, e vi tornò alla presa del potere dei comunisti cinesi. Nella trilogia filmica a lui dedicata come eroe nazionale, sembra che i cinesi caccino i giapponesi da soli, quando la cosa fu effetto della vittoria americana ed Hong Kong sembra il rifugio ideale per i patrioti cinesi. In realtà anche il Porto profumato soffrì dell’occupazione giapponese e la sua fortuna decollò proprio per la grande immigrazione di persone e aziende cinesi in fuga dalla Cina comunista.Yip Man è un eroe dei benefici del colonialismo occidentale, non del patriottismo cinese. Suggerisce che i cinesi, con le regole altrui, danno il meglio di sé.
Indubbio che dopo la fuga dall’Afghanistan, anche la liquidazione distopica di un luogo simbolo e vanto dell’uomo bianco abbiano suggerito agli autocrati il momento di vuoto spirituale e sconsacrato della debolezza occidentale, per dirla con l’espressione cara a Pera. Certo il prossimo XX° congresso comunista cinese, in autunno, non somiglierà all’analogo russo. Malgrado la concreta inversione a U, in Cina non c’è mai stata demaozizzazione; nemmeno la condanna del comunismo pronunciata nel 2002 da Putin. Lo stesso controllo della rete e dei media è più stringente di quello russo. Non ci sono Durov cinesi a gestire dagli emirati un messaging stile Telegram.
Al XX° congresso il miliardario comunista Xi loderà i successi economici che non ci sono e sempre meno ci saranno; loderà le strategie sanitarie che invece sono tragiche, come racconta la fame di Shangai ne Le voci di aprile; si vanterà della sua Crimea riconquistata, Hong Kong, in attesa della sua Ucraina, Taiwan. E farà rimpiangere il colonialismo.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.