Mentre infuria la guerra in Ucraina, i Paesi baltici temono che l’occhio del Cremlino possa spostarsi su quella regione. La Lettonia, incastonata tra il mare e la Russia, vive il rapporto con Mosca con diverse anime: tra chi guarda a est con paura e chi invece vuole solo una convivenza pacifica. Tutto questo mentre la nuova cortina di ferro cala sull’Europa.
Kalpaka bulvaris, un lungo viale che percorre il centro di Riga, è ricoperto di lumini, bandiere dell’Ucraina, cartelloni che condannano la guerra e attaccano Vladimir Putin. Ma quel viale è anche uno spartiacque tra due mondi che si guardano da una parte all’altra della strada. Su un lato, nel centro congressi costruito negli Anni Ottanta, c’è un centro per i rifugiati ucraini. Dall’altro lato della strada, separato solo dalla careggiata, si erge il palazzo che ospita l’ambasciata russa. Nell’arco di poche decine di metri, uno di fronte all’altro, ci sono il palazzo che rappresenta il potere di Mosca e un edificio che assiste coloro che fuggono proprio da quel potere. E per di più un palazzo eretto quando la Lettonia era una repubblica socialista e proprio per ospitare i convegni di un partito che rappresentava la diretta emanazione del Cremlino. Alla sinistra dell’ambasciata, un enorme ritratto di Putin con i denti da scheletro osserva gli uffici di rappresentanza della Federazione Russa come gesto di sfida verso i funzionari del Cremlino. Nel piazzale qualcuno ha messo addirittura una gabbia: dentro un manichino con la faccia del presidente russo. Un ragazzo, quando arriva il pomeriggio, monta una cassa dello stereo e fa esplodere una canzone contro il presidente russo.
Una volta entrati nell’edificio per i rifugiati, si ha l’impressione di essere in un ufficio postale, con le persone sedute nella sala d’attesa e altre agli sportelli. Le persone si registrano, mostrano i documenti, ricevono un pasto caldo e una bevanda. Chi vuole si può riposare, nella speranza di dimenticare, almeno per un istante, l’orrore della guerra. Il flusso di persone è monitorato da pochi poliziotti all’esterno e all’interno da alcuni agenti del controllo immigrazione e tanti volontari. C’è un brusio composto, un susseguirsi di gesti diventato ormai automatici. Una delle responsabili, che ci ha permesso di entrare nel centro congressi, ci spiega che il piano di sotto è adibito a sala mensa, mentre il piano di sopra ospita la sala d’attesa e anche una vecchia sala cinema in cui scorrono video sul maxischermo che danno una parvenza di normalità.
Fuori, la tranquillità di Riga viene ricercata anche dagli ucraini. Molte mamme portano i figli a fare una passeggiata nel parco, spesso accompagnate dalle nonne o da altri membri della famiglia. Qualcuno ha con sé anche un cagnolino. Le ragazze più grandi provano a prendere le vie del centro, mentre passano davanti i messaggi lasciati lì dai cittadini. Come ogni giovane, anche loro non staccano le mani dal telefono: ma quello in fondo è anche l’unico tramite tra loro e chi è rimasto in Ucraina o chi è in un altro Paese.
In questi giorni, il governo lettone ha adibito anche un altro palazzo, a pochi passi dal municipio di Riga, per dare assistenza ai rifugiati. Lì sono stati trasferiti molti dei servizi del centro congressi. Sin dalle prima ore della mattina i profughi o chi cerca informazioni si mettono in fila tra le transenne. All’esterno viene allestito un banchetto con caffè, qualche bibita e la prima colazione. Molte macchine parcheggiate hanno la targa ucraina. Anche qui una fila ordinata di persone fuggite dalla guerra viene osservata da un simbolo che per molti rappresenta ancora la Russia: in questo caso l’Unione Sovietica. La statua in granito rosso in onore dei fucilieri lettoni, soldati che in larga parte scelsero di unirsi alle forze bolsceviche, si erge nella piazza dove a qualche decina di metri si forma la coda dei profughi ucraini. Imperi antichi e nuovi e una storia che non cessa mai di essere simbolo.
Lorenzo Vita (Insideover)
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