«Non sono d’accordo su ciò che dici, ma darei la vita affinché tu possa dirlo»: è una frase attribuita a Voltaire (in realtà è della scrittrice Evelyn Hall, in un libro dedicato al filosofo francese) che, al di là del copyright, descrive compiutamente il rispetto verso le opinioni altrui che dovrebbe caratterizzare il pensiero liberale. Chi è forte dei propri argomenti non dovrebbe temere quelli degli avversari. Eppure, nel mondo capovolto in cui viviamo, sembra che l’arma del «silenzio», cioè il tentativo di stendere una cappa sul dissenso, sia diventata la «scorciatoia» preferita pure in Occidente.
Si tratta, però, di una scorciatoia «pericolosa» perché racchiude in sé un germe autoritario che è incompatibile con ogni democrazia degna di questo nome; ma, nel contempo, seducente perché è molto meno faticosa del confronto. Il sottoscritto, ad esempio, ha sempre pensato che si debba stare dalla parte dell’Ucraina, che sia doveroso assicurarle le armi di cui ha bisogno per difendersi, che la precondizione di ogni mediazione debba essere il «sì» di Kiev. Detto questo, la «caccia» ai putiniani e le liste di proscrizione nei confronti di dubbiosi e «pseudo pacifisti» sono atteggiamenti ridicoli, che offrono a Mosca una patina di vittimismo.
Il vero problema è il sottile rischio che si nasconde dietro l’uso dell’«arma del silenzio», talmente semplice e comoda da trasformarsi naturalmente in un’abitudine. E se nella guerra in Ucraina chi la predica accampa l’alibi della difesa dei valori democratici – producendo il paradosso di usare uno strumento autoritario per difendere la democrazia in un altro Paese -, in Italia lo stesso meccanismo è stato utilizzato in queste settimane per silurare i referendum sulla giustizia. Cioè l’istituto democratico per antonomasia.
Nel Paese che si è inventato addirittura la legge sulla «par condicio», una cappa è calata sulla campagna referendaria. Il dibattito è stato silenziato sulla Tv come sui giornali. Addirittura la Rai è venuta meno ad un suo obbligo istituzionale. C’è stata una rimozione della scadenza elettorale pignola e chirurgica. È come se il «sistema», per istinto di sopravvivenza, abbia usato l’«arma del silenzio» per scongiurare una sconfitta già scritta, visto che l’indice di gradimento dei magistrati è sotto zero. Un piano preordinato o una comunità di intenti con diversi protagonisti. La Consulta ha bocciato i quesiti che avrebbero portato con più facilità gli italiani alle urne (droga, eutanasia, responsabilità civile dei giudici). Il governo ha ridotto da due ad uno i giorni in cui è possibile votare. La Rai ha cloroformizzato la campagna referendaria.
Il «sistema» non ha giocato sulla vittoria del No (impossibile) ma sul «non» raggiungimento del quorum. Un espediente pericoloso perché rende inutile una consultazione; magari ne modifica politicamente l’esito; ma non fa venire meno la sfiducia degli italiani verso il nostro sistema giudiziario. L’«arma del silenzio» non risolve i problemi, infatti, ma li sotterra. Come i rifiuti tossici nella terra dei fuochi.
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