Nel cuore le dolomiti, negli occhi il mare
Quelle estati torride, assolate e profumatissime di natura, di essenze selvagge e di fiori, avevano per me un fascino profondo e impenetrabile. Erano gli anni sessanta, ero un ragazzino spaesato e immerso in una realtà che ancora stentava a prendere consistenza, attorno al mio piccolo mondo in crescita. Venivo da lontano, e quasi come un bagaglio trasportato senza resistenza dai movimenti di una famiglia, sbarcavo come un esule in un luogo che mi appariva di un altro pianeta. Ero abituato ad altri odori, altra aria ed altri panorami; avevo le Dolomiti ancora nel cuore, nella testa e nelle gambe che sentivo ancora avvezze agli scarponi ed agli sci, molto meno alle pinne ed alla maschera da sub, quando mi portarono per la prima volta in spiaggia. Infatti non pensavo ad indossarli, questi arnesi sconosciuti ma proprio per questo curiosi alla mia vista. Guardavo distrattamente gli altri, disteso sulla sabbia, mentre giocavano, si tuffavano e facevano normalmente (per loro) chiasso e anche mi ignoravano, mentre io non sapevo farlo, con loro.Non lo facevo, non potevo perché ero lì fisicamente con il corpo, ma non con la mente ancora in viaggio nei ricordi, e in quella incomprensibile metamorfosi di un paesaggio che, per quanto mi stupiva, continuava a rimanere astratto, surreale. Ondeggiavo tra immagini che nella mia testa si sovrapponevano in un’alternanza quasi ossessiva, con il rumore della risacca e lo scorrere dell’acqua tra le rughe delle rocce semisommerse del bagnasciuga, a rimettermi in moto le immagini dei ruscelli , rivoli zampillanti di acqua gelida, limpida e sorgiva, che scendeva tra il muschio e i sassi, dai ripidi boschi di conifere dell’Alto Adige.
La formica e il mulo
Invece ero li, a due passi dal Mediterraneo. Accovacciato tra la sabbia caldissima, anche se all’ombra, osservavo una grossa formica che sembrava aver assunto un compito improbo: con una briciola di pan secco, circa tre volte più grande di lei, stava muovendosi verso una meta poco lontana nella mia ottica, lontanissima rapportandola alle dimensioni del mondo che rappresentava la formica. Riprendevo a sognare ad occhi aperti, e quasi senza rendermene conto muovevo una mano poco avanti sulla traiettoria della formica con il suo carico, fino a formare con la sabbia umida una serie di piccole cime dolomitiche. La formica giungeva ai piedi della mia catena alpina e annaspava, il suo carico precario sembrava travolgerla, scivolava qualche millimetro all’indietro ma riprendeva ostinatamente il cammino, fino a trovare un varco tra le cime e passare oltre, come si valica un passo d’alta quota. Quella formica era diventata il mulo, il mitico compagno di viaggio degli alpini, e la sua briciola era lo zaino, il suo arrancare era come la fatica del soldato che non c’era se non nella mia riesumazione delle immagini stipate nella memoria. Avevo ricostruito, miniaturizzato, il rito delle lunghe marce dei battaglioni in grigioverde, le mitiche penne nere che per anni avevo osservato partire dalle caserme, passare cantando in coro sul sentiero davanti a casa e inerpicarsi tra gli abeti, verso le vette innevate.
Quel penetrante sapore di salsedine
Mi sentivo rinfrancato da quel viaggio immaginario, finché al richiamo di mio padre mi ridestavo, dissolvendo l’incantesimo, e infilandomi i calzoni corti lo seguivo sulla via del rientro. Tornavo senza sosta a chiedermi quale fosse il perché, invece del sentore di bosco e muschio mi sentivo invadere il naso, la bocca e i polmoni da quell’intenso e penetrante sapore di salsedine, condito dal profumo selvatico del mirto nella macchia mediterranea, e distratto dal raglio lontano di un asino. Mi fermavo, voltandomi più volte all’indietro, guardavo ancora tutto attorno i bagliori del mare al tramonto, provando sensazioni di fascino e angoscia assieme, l’orizzonte era la misura dell’infinito che mi separava dal paesaggio alpino, radicato nella mente negli anni precedenti. Stavo però progressivamente metabolizzzando le differenze, imparando ad accettare il fascino misterioso di una terra tanto diversa e lontana, ma ricca di altri sapori, luci e sensazioni, di liquidi spazi dai quali emergeva rude, misteriosa e romantica nella sua torrida bellezza. Era diventata la mia isola, allora, mentre le mie narici aspiravano quell’aria, quel vento, quegli odori e quel silenzio rotto dal canto monotono e ininterrotto delle cicale: essenza di Sardegna…