’È TEMPO SINO A FEBBRAIO 2023 PER VISITARE LA VASTISSIMA MOSTRA CHE PALAZZO REALE DEDICA AL LEGGENDARIO MAX ERNST, RIPERCORRENDONE LA CARRIERA
“È una mostra che restituisce Max Ernst in quanto umanista”, ha proclamato con orgoglio Jürgen Pech presentando l’antologica sul grande artista tedesco al Palazzo Reale, da lui curata con Martina Mazzotta. Potrebbe sembrare una definizione generica, ma è invece pregnante: sia perché il nobile concetto di intellettuale umanista è oggi ingiustamente inutilizzato e svilito, sia perché questa definizione rende bene l’idea dell’ampiezza del pensiero e non solo dell’opera di Ernst. L’esposizione dimostra infatti, ripercorrendo tutte le fasi della sua carriera con dovizia di particolari in senso sia cronologico sia tematico, come Max Ernst (Brühl, 1891 ‒ Parigi, 1976) sia stato uno dei grandi intellettuali a tutto campo del Novecento, attraversando indenne, quasi sempre da protagonista, correnti e mutamenti nello spirito del tempo ‒ e soprattutto fungendo da elemento federatore per altri artisti, letterati e uomini di cultura di vario genere. Tramite l’esplorazione di una figura così eclettica e duratura, si delinea poi anche il ritratto di un’epoca – il tanto vituperato Novecento che oggi stiamo iniziando finalmente a leggere in chiave retrospettiva – nella quale all’idea di “dibattito intellettuale” veniva ancora attribuito tutto il suo nobile senso, coniugando pensieri (elaborazione teorica a priori ed ex post) e atti (le opere) e costruendo una comunità intellettuale la più ampia possibile.
ERNST IN MOSTRA A MILANO
Ma andiamo con ordine: la buona notizia è che si tratta di una “vera” mostra su Ernst – ovvero non una rassegna con pochi capolavori e molte lacune, come troppo spesso avviene nelle rassegne dedicate ai grandi nomi, ma un’antologica esaustiva con diversi capolavori, prestiti illustri e una qualità generale senza cali di tensione. La scansione della mostra, distribuita in dieci sezioni, è efficace, acuta ed esplicativa. Va però detto che, secondo quello che sembra un tic ricorrente nelle mostre di Palazzo Reale (complice anche la difficoltà intrinseca dello spazio), le opere in ogni sala sono moltissime e allestite in maniera molto fitta ‒ la struttura è forse più quella di un libro che di una mostra, d’altronde dotata di un documentato e approfondito catalogo. È vero che la vulcanicità e la compresenza di stimoli sono caratteristiche tipiche di Ernst, ma in questo modo si riduce l’impatto di ogni singolo lavoro – ogni opera dell’artista è un mondo a sé che ha bisogno di spazio fisico e mentale. L’esposizione rimane comunque da non perdere, anche per completezza. Appena entrati ci si trova al cospetto di un pezzo importante e di grande impatto, che ben funziona come “manifesto” di ciò che seguirà: l’Edipo re del 1922 è infatti uno straordinario esempio di Metafisica, ma allo stesso tempo dimostra l’alterità, l’incongruità di Ernst anche quando si “adatta” a correnti e stili. Inizia poi il percorso cronologico, con le opere giovanili ‒ una sorta di Ernst prima di Ernst – e con le opere influenzate da de Chirico (una “rivoluzione copernicana”, come recita il titolo di questa prima sezione). Altro esempio della fedele infedeltà della quale si parlava a proposito dell’Edipo re è Giustizia o macellaio (1919) che sembra presagire già l’atmosfera successiva. Fatta di misteri ancora più insondabili e scabrosi di quelli analizzati dalla Metafisica e dallo stesso de Chirico.
DALL’ECLETTISMO ALL’EROS
La sezione successiva, All’interno della visione, introduce a un’altra caratteristica fondamentale dell’artista, ovvero la sua volontà e capacità di mettere a punto o addirittura inventare la tecnica più adatta per esprimersi. Il suo eclettismo è infatti non solo diacronico, attraversando Dadaismo, Surrealismo e molte altre correnti, ma anche sincronico: ogni singola opera è assoluta perché incenerisce qualunque modalità espressiva preesistente, concedendosi senza paura al rischio dell’artigianalità – ogni volta vincendo questo rischio e sublimando questa dimensione. E la sezione è anche un primo tuffo nello stile più conosciuto, con i montaggi di immagini che perseguono il metodo delle associazioni (più o meno) istintive. Su questo punto Ernst è ancora una volta pioniere: già negli Anni Venti analizza lo status stesso dell’immagine, la sua sussistenza e la sua decadenza che diventerà palese nella società di massa. La sezione Eros e metamorfosi è poi un perturbante viaggio nelle ibridazioni proprie dell’artista. Non solo l’immagine ma anche l’essere umano è soggetto a una messa in discussione radicale, dovuta tanto agli stravolgimenti della Storia che a peculiari motivi di stampo esistenziale e psicoanalitico. Conturbanti al massimo grado eppure non privi di ironia, i corpi multipli di questi lavori sono una dimostrazione di come il Surrealismo dell’artista tedesco non fosse preda di una visione puramente onirica, ma costituito da una mediazione perfetta tra sogno e discorso razionale (ed ecco perché Ernst si può considerare immune da certe derive del tardo Surrealismo). E poi il rapporto con la natura, nella sezione I quattro elementi, un rapporto allo stesso tempo panico e razionale, totalizzante e inquadrato in un sistema di pensiero aperto ma senza falle. Esplode qui un altro suo noto procedimento tecnico, il frottage, che arriva a influenzare anche le opere più puramente pittoriche, e ci si trova davanti paesaggi magmatici difficili da descrivere e figure celebri come quelle del Monumento agli uccelli (1927).
LA RICERCA DI MAX ERNST
Con l’imponente dipinto Un tessuto di menzogne (1959), un inaspettatamente luminoso intrico di figure umane e animali al quale viene riservata una “nicchia” a parte nel percorso espositivo, si apre la parte della mostra che fa scoprire opere e stili meno conosciuti, quelli del secondo dopoguerra. Ci sono paesaggi alteri eppure a loro modo accoglienti degli Anni Trenta, prove semiastratte come Il meteorologo del 1951, episodi anomali come la libera composizione geometrica di volti intitolata La festa a Sellians (1964), lavori che si avvicinano (anche se pur sempre in modo personalissimo) alla temperie informale imperante negli Anni Cinquanta. Fino alle opere “cosmiche” degli Anni Sessanta e Settanta, estremamente incongrue se analizzate secondo il gusto odierno, ma “esatte” se contestualizzate nel progetto via via sempre più totalizzante di riappropriazione del mondo e della realtà da parte dell’artista. Al percorso cronologico si affiancano come detto affondi tematici. Ecco che in settori come quello intitolato Memoria e meraviglia si trova un sunto delle espressioni più famose dell’artista, con opere quanto mai rappresentative. Basti citare Pietà o La rivoluzione la notte (1923), altro esempio di Metafisica sui generis, L’angelo del focolare (1937), dove i mostri e gli incubi diventano anche testimonianza e denuncia politica sugli avvenimenti che rendevano incombente la Seconda Guerra Mondiale, e L’antipapa (1941), esempio di uno dei periodi stilistici più fecondi. Ernst umanista, si diceva all’inizio: il che va inteso, alla luce dell’ampio percorso della mostra, anche nel senso di “ricercatore” inesausto, mai soddisfatto dei risultati e delle conclusioni a cui è giunto. Ma che nondimeno costruisce via via un progetto coerente e granitico pur nella sua estrema apertura e variabilità. Articolo pubblicato su Grandi Mostre #31
Stefano Castelli
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