Una mostra e uno spettacolo per il fine settimana a Milano

Cultura e spettacolo

La scultura è un genere artistico in via di estinzione. Il suo posto, nelle gallerie e nei musei d’arte contemporanea, è stato quasi del tutto preso dall’installazione che, per certi versi, si colloca ai suoi antipodi. La differenza fondamentale tra il linguaggio della scultura e quello dell’installazione consiste infatti nella preminenza accordata allo spazio rispetto alla materia, alle sue peculiarità espressive e alle sue valenze simboliche. In un’opera scultorea, l’organizzazione dello spazio è funzionale alla percezione della materia; viceversa, in un’opera di natura installativa, la modellazione e la disposizione dei materiali di cui è composta è funzionale alla percezione dello spazio. Le recenti opere di Athanasios Argianas, in mostra da Renata Fabbri Arte Contemporanea, riescono a essere sculture e installazioni allo stesso tempo. Realizzate in materiali spesso nobili (però  trattati in modo antiretorico) e talvolta neo-tecnologici (ma con un piglio espressivo che li priva di freddezza), ridefiniscono lo spazio in cui sono collocate, lo rendono vibrante, ritmico, anche grazie ai loro molteplici rimandi alla dimensione musicale che si intrecciano con echi del versante scultoreo e classicheggiante dell’Arte Povera (Luciano Fabbro e Hidetoshi Nagasawa in particolare).

La scultura è stata una delle passioni di Edward Albee, il drammaturgo americano conosciuto soprattutto per Chi ha paura di Virginia Woolf, la sua pièce del 1961 da cui è stato tratto l’omonimo film di Mike Nichols. Collezionista di opere d’arte contemporanea, talvolta anche curatore di mostre, Albee è stato per decenni il compagno di uno scultore canadese, Jonathan Thomas, scomparso nel 2005. L’anno precedente il drammaturgo insignito di due Tony Award e di due Premi Pulitzer aveva deciso di rimettere mano al suo primo testo di successo, Allo zoo, rappresentato a Berlino nel 1959 dopo essere stato respinto da molti teatri statunitensi. Albee decise di scrivere un prologo alla storia attorno a cui ruotava la stesura originale: nacque così A casa allo zoo, lo spettacolo in cartellone fino a domenica 29 gennaio al Teatro Filodrammatici con la regia di Bruno Fornasari. Il prologo vede una coppia alto-borghese della New York di fine anni Cinquanta impegnata in una conversazione che si fa via via più tagliente. Ann vorrebbe arrivare a una resa dei conti con Peter. Per lei nel loro rapporto non vi è «nulla che possa dirsi sufficiente»; per lui il matrimonio è «un viaggio tranquillo» da compiersi su quella «barca inaffondabile» che gli è sempre parsa la famiglia. Peter si libera da un soporifero aplomb quando la moglie risveglia il suo lato pulsionale: la coppia sperimenta allora un momento quasi orgiastico di cui però non sembra sentirsi all’altezza. Interpretata con brio e sottigliezza psicologica da Valeria Perdonò, Ann esce definitivamente di scena. Peter, reso con estrema ponderazione da Michele Radice, si reca al Central Park per leggere le bozze dell’ennesimo manuale che verrà pubblicato dalla sua casa editrice. Inizia così la seconda parte dello spettacolo imperniata sul personaggio di Jarry. Classico tipo strano, che attacca bottone in modo suadente con Peter e che snocciola una serie di amenità apparentemente senza senso, è in realtà l’ennesima manifestazione del “perturbatore”, una figura drammaturgica di lunga tradizione. È a lui che Albee ha affidato il compito di istruire Peter su una serie di questioni affilate, che scorrono però nella conversazione in maniera fluida e apparentemente innocua: la necessità di far convivere «gentilezza e crudeltà», il confine labile che separa il gesto di amare da quello di uccidere, l’illusione di poter segregare la propria istintualità in una sorta di zoo delle emozioni. Si tratta di consapevolezze che non possono non generare delle ferite: questa volta il colloquio si fa letteralmente tagliente, e tocca a Jarry uscire di scena dopo averci palesato, attraverso l’interpretazione davvero impeccabile di Tommaso Amadio, la sua natura di alienato sapiente. Si chiude così uno spettacolo che deve a una regia minuziosa, incentrata sulla tensione irrisolta dei personaggi a scambiarsi di posto (con le valenze metaforiche che ciò comporta anche in termini di lotta di classe), e a un testo finemente scolpito, composto da frasi cesellate in maniera ossessiva, la sua piena riuscita.

Roberto Borghi         

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