Kissinger: dal Vietnam alla Russia la sua eredità

Esteri

Il 27 gennaio 1973 Henry Kissinger, allora consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Usa Richard Nixon, celebrò la sua più grande pietra miliare diplomatica con gli Accordi di Parigi che posero fine all’intervento americano in Vietnam senza per questo pregiudicare la posizione e, soprattutto, l’immagine di Washington. L’allora 50enne studioso e diplomatico americano è oggi il quasi centenario esperto e vecchio saggio, interprete della dottrina del realismo, che chiede all’Occidente e alla Russia di concludere un negoziato sull’Ucraina ed evitare di calpestare le reciproche linee rosse. Ieri come oggi agendo in funzione di una visione imperiale della geopolitica e del pragmatismo più schietto.

Dialogando con il leader politico nordvietnamita Le Duc Tho, Kissinger trattò dall’insediamento dell’amministrazione Nixon in avanti cercando una via d’uscita per Washington a una guerra che si era rivelata dispendiosa e foriera di grandi sconvolgimenti. Nella consapevolezza, non colta da molti membri dell’establishment Usa, che le decine di migliaia di morti in Vietnam non valessero la pena del sostegno alla repressione anticomunista nel Vietnam del Sud fino alla vittoria finale e che l’obiettivo strategico di impantanare le forze rivoluzionarie in Asia meridionale e mostrare agli alleati e ai rivali regionali la determinazione dell’America a combattere fosse stato raggiunto.

Inoltre, Kissinger era stato l’uomo dei viaggi in Cina, dell’apertura al dialogo con la Repubblica Popolare e il disgelo con il regime di Mao Zedong. Pragmaticamente, aveva capito che la vera partita si giocava a Pechino, non ad Hanoi o Saigon. E da sostenitore della realpolitik, Kissinger ha svolto un ruolo dominante nella politica estera degli Stati Uniti grazie agli incontri con Zhou Enlai e il passaggio alla nuova frontiera della diplomazia in senso antisovietico.

In seguito, però, fu anche l’interprete della distensione e degli Accordi di Helsinki del 1975 da Segretario di Stato di Gerald Ford. Un uomo capace di mischiare soft power e diplomazia a un uso spregiudicato della linea “dura” in politica estera: nel discorso di Kissinger sulla stabilità rientrano anche le mosse compiute a favore del golpe cileno del 1973 o dei bombardamenti sul Vietnam del Nord per accelerare la conferenza di Parigi l’anno precedente.

La lezione di Kissinger sulla Russia

Ciò che si può trarre dalle mosse di Kissinger e dai suoi moniti odierni sui rischi di un’escalation con la Russia è chiara: gli Stati Uniti devono ragionare da potenza imperiale, da primus inter pares, cercando il dialogo diretto con gli attori pivotali ed evitando che le tensioni alle periferie si scarichino nel centro politico e diplomatico. Una visione alla Metternich della diplomazia che presuppone un ruolo naturale delle potenze maggiori come custodi e gendarmi della stabilità complessiva dell’ordine globale. In cui si può competere nelle regole generali del “concerto tra le potenze”. Questo informa appieno la visione sistemica di Kissinger riguardo la stabilità planetaria, ieri come oggi.

All’alba dei cento anni il diplomatico divenuto filosofo della politica internazionale si è rilanciato come vecchio saggio della stabilità internazionale, ammonendo Washington e Mosca che la stabilità in Ucraina è cruciale per l’ordine mondiale ed è loro responsabilità garantirla. Per comprendere i rischi a cui il mondo va incontro, Kissinger a dicembre ha usato la metafora della corsa alla Grande Guerra nel 1914 in un articolo pubblicato sullo Spectator: “La prima guerra mondiale è stata una sorta di suicidio culturale che ha distrutto l’eminenza dell’Europa. I leader europei sono stati sonnambuli – secondo le parole dello storico Christopher Clark – in un conflitto in cui nessuno di loro sarebbe entrato se avessero previsto il mondo alla fine della guerra nel 1918”, ha scritto l’ex segretario di Stato.

“Il mondo di oggi si trova a un punto di svolta paragonabile in Ucraina”, ha notato Kissinger, per il quale “si avvicina il momento di costruire sui cambiamenti strategici che sono già stati compiuti e di integrarli in una nuova struttura verso il raggiungimento della pace attraverso il negoziato”. Una versione odierna del Congresso di Vienna, negoziato tra imperi e potenze in nome del realismo secondo cui l’abboccamento con un rivale è meglio della mutua distruzione assicurata. Perché il mondo del confronto, anche aspro, ma prevedibile è, secondo Kissinger, migliore di qualsiasi forma di imprevedibilità. Contro il cui sdoganamento da tempo avverte i principali leader mondiali. A Parigi come sull’Ucraina, seguendo la stella polare del realismo che ritiene la più funzionale all’interesse nazionale americano.

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