Nei giorni scorsi il Governo ha fatto filtrare le bozze di una delega per la riforma fiscale. La delega prevede un complessivo riordino del sistema tributario con quattro obiettivi: maggiore certezza del diritto; minore pressione fiscale; riduzione del contenzioso; attrazione dei capitali esteri. Sulla carta i principi sono pienamente condivisibili, ma tutto dipende – prima ancora che dai dettagli – dal modo in cui verranno tradotti in norme e, poi, in fatti concreti.
I grandi assi della riforma sono la revisione dell’Irpef – con la transizione verso un sistema a tre aliquote e poi, forse, ad aliquota unica – il superamento dell’Irap e l’introduzione di una aliquota ridotta accanto a quella ordinaria del 24 per cento. Contemporaneamente, dovrebbero essere riviste le aliquote Iva e razionalizzate le spese fiscali, con particolare riferimento alla fiscalità ambientale.
Ci sono tre punti particolarmente delicati nel percorso disegnato dal governo, che vanno necessariamente messi a fuoco fin dall’inizio. Il primo riguarda il bilanciamento tra “vincenti” e “perdenti”: non è possibile una riforma da cui tutti traggono vantaggio, e anche coloro che ne beneficiano lo faranno in modo diverso. Mentre è facile “vendere” all’opinione pubblica e alle singole constituency quelle parti della riforma che determinano una minore rapacità del fisco (per esempio, la riduzione delle aliquote) sarà più difficile farlo con gli aggiustamenti che possono comportare l’incremento di specifici tributi (come il superamento di alcuni regimi separati o l’eliminazione di talune spese fiscali). E’ essenziale che la riforma proceda come un tutt’uno e mantenga la sua organicità. Esattamente per questa ragione, gli incentivi impliciti nella riforma non dovrebbero essere pensati come una sorta di succedaneo della politica industriale: benissimo usare il fisco per stimolare l’innovazione, ma guai a pretendere che sia l’amministrazione fiscale a imporre alle imprese quali innovazioni perseguire, quali assetti organizzativi darsi, quali dimensioni siano ottimali.
Il secondo punto, strettamente collegato, riguarda la transizione: una riforma ambiziosa non può realizzarsi interamente dalla sera alla mattina. Di questo l’esecutivo è pienamente consapevole e in parte ha già anticipato come intende muoversi, per esempio con la progressiva riduzione del numero e del livello delle aliquote Irpef. Ciascuno di questi stadi della riforma dovrebbe essere concepito come un passaggio autonomo. Naturalmente, la presenza di un “piano B” nel caso in cui il processo dovesse interrompersi non significa che i traguardi intermedi dovrebbero essere visti alla stregua di un punto di arrivo, né tanto meno che essi (soprattutto il primo, il quale sarà cruciale nella formazione delle aspettative) debbano peccare di ambizione. Ma il sistema tributario dovrebbe trovarsi, in ciascun momento, in condizioni di equilibrio e, possibilmente, in un assetto preferibile a quello precedente, per evitare di costringere a precipitose e dannose retromarce.
Infine, la questione fondamentale attorno a cui ruota qualunque progetto di riforma: se la riduzione della pressione fiscale ne è una componente determinante, allora essa deve essere accompagnata da una altrettanto determinata operazione di revisione della spesa. Nella situazione di debito in cui si trova l’Italia, e in un contesto macroeconomico estremamente fragile, non è neppure immaginabile che la riforma possa compromettere la sostenibilità dei conti pubblici. E questo è particolarmente importante per un governo che, finora, ha dimostrato su questo tema una giusta attenzione. Gli effetti finanziari della riforma non dovrebbero essere neutrali (rispetto ai saldi) soltanto a regime, ma anche nel breve termine.
La riforma fiscale serve a promuovere la crescita: ciò non può avvenire a scapito della solidità del bilancio pubblico.
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