La più lunga giornata della Russia finisce con un “nulla di fatto”. Il capo della Wagner, Evgenij Prigozhin, ritira le sue truppe dopo una mediazione assegnata d’ufficio al bielorusso Aleksandr Lukashenko, mentre il presidente russo Vladimir Putin evita una battaglia fratricida che avrebbe coinvolto forse la stessa capitale. In superficie verrebbe da dire che nessuno si è fatto male, quindi che non ci sono tecnicamente sconfitti. In realtà, grattando la patina delle apparenze salvate dal Cremlino e dalla Wagner, quanto accaduto a Mosca e dintorni rappresenta forse una sconfitta per tutti gli attori in campo. Un colpo di mano il cui uno risultato tangibile è quello di avere confermato una certa fragilità insita nel sistema russo a uno e mezzo di guerra e con un 2024 elettorale alle porte.
Prigozhin, che ha salvato sicuramente la propria vita data l’accusa per ribellione armata, ha certamente raggiunto uno scopo: quello di dimostrare la capacità della sua Wagner di prendere determinati centri di comando e addirittura poter puntare su Mosca con una forza sufficiente a mettere in pericolo la sicurezza della capitale russa. Il fatto che abbia costretto il Cremlino a trattare, per evitare spargimenti di sangue ma anche una guerra interna con la perdita di uomini utili su altri fronti, Ucraina in primis, è un altro risultato di abilità negoziale che non va sottovalutato, anche se forse sopravvalutato da egli stesso.
Prigozhin dimezzato
La spettacolare – quanto inefficace – marcia su Mosca ha infatti testimoniato anche una sconfitta personale di Prigozhin. Il leader della Wagner si è dimostrato isolato rispetto alle autorità politiche e alle milizie, le forze armate non si sono disciolte pur non combattendo contro i suoi contractors, e, dopo la mediazione offerta da Lukashenko, Prigozhin dovrà andare in esilio in Bielorussia mentre una parte della Wagner sarà contrattualizzata dalla Difesa russa. Ricordiamo che è stato proprio quest’ultimo elemento, il decreto di Putin affinché le compagnie private firmassero contratti con la Difesa, a scatenare l’ira finale di Prigozhin e la conseguente decisione di marciare su Rostov-sul-Don e Mosca.
Infine, nella paradossale situazione che vive la Federazione Russa, la marcia del capo della Wagner costituisce una sorta di possibile pietra tombale nelle velleità politiche di un uomo che, con un impero economico e militare alle spalle, più volte aveva fatto capire di volere capeggiare l’ala dei “falchi” e dei nazionalisti (cambiando poi repentinamente idee nell’ultimo momento), sondando il terreno per un eventuale ruolo apicale nelle istituzioni di Mosca. E anche dal punto di vista delle ramificazioni dei suoi mercenari nel mondo, appare difficile al momento dare per scontato che la Wagner possa continuare a operare come se nulla fosse, mantenendo intatta la “benedizione” di Putin in diversi scenari bellici dove si incrociano gli interessi privati di Prigozhin: in primis in Africa.
Putin e la fine di un mito
Dal punto di vista del presidente russo, invece, quanto accaduto nelle scorse ore in Russia rappresenta, al momento, più una sconfitta che una vittoria. Il presidente russo può certamente dire di avere evitato un bagno di sangue, e può puntare sul fatto che ha preferito la stabilità e combattere un nemico esterno piuttosto che accanirsi contro un nemico interno. Avere evitato una “guerra civile” (ammesso che questo sia mai stato un pericolo concreto) potrebbe essere uno dei grandi leitmotiv del futuro di Putin.
La sconfitta nell’immagine resta però abbastanza inevitabile. Come ha notato Orietta Moscatelli su Limes, “quando il leader massimo perde l’aura, le cose possono prendere pieghe inattese, anche precipitare”. Ed è chiaro che questo possa comportare dei rischi anche nel prossimo futuro per un presidente che, di fatto, appare indebolito e costretto a trattare con il capo di una rivolta. Putin, dopo ieri, si è mostrato al suo popolo, ma soprattutto al suo establishment, come un presidente non più intoccabile né al sicuro. Avere fatto appello all’unità contro una “pugnalata alle spalle” che ha collegato a quella di Lenin nel 1917 rappresenta una certificazione di minaccia esistenziale che testimonia il rischio per la sua stessa idea di Stato.
Per Putin, inoltre, il quasi assedio di ieri a qualche centinaio di chilometri da Mosca rappresenta anche plasticamente le difficoltà dell’intelligence e delle forze armate nel prevenire e poi coordinarsi nella reazione contro Prigozhin. A livello pubblico, l’immagine che scaturisce è che i servizi russi, in particolare l’antiterrorismo, non siano stati in grado di prevedere le mosse di un connazionale, cioè Prigozhin. E dal momento che nel frattempo è stata condotta una trattativa con un mercenario ribelle, questo potrebbe anche portare alla esautoramento di personaggi da sempre considerati molto vicini a Putin ma odiati da Prigozhin. Sergei Shoigu in testa.
Lukashenko come garante
La decisione di mostrare Lukashenko come mediatore per risolvere la crisi interna della Russia è poi un’ulteriore segnale di debolezza che Putin manda al suo popolo. Il leader bielorusso, da sempre considerato un vassallo dello “zar”, è stato sostanzialmente innalzato come colui che ha reso possibile la salvezza della Federazione. Nulla accade per caso a Mosca, ed è probabile che Putin abbia detto al portavoce di Dimitri Peskov di mostrare il ruolo di Lukashenko anche per non ammettere di avere personalmente negoziato con Prigozhin ponendosi allo stesso piano di un leader accusato di tradimento. Peskov ha voluto sottolineare che quella di Lukashenko è stata “una sua iniziativa personale”. Ma è chiaro che questo non possa piacere a chi, in Russia, considera Putin il vero artefice della politica e della stabilità del Paese.
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