Saviano non farà il suo programma Rai a novembre sulla malavita. O forse si. Facci non farà il suo programma Rai. Sicuramente no. Eventualmente verranno accantonati in favore di Elkann senior che finalmente tornerà in Tv e non alle 3 di notte, coi sui epistolari e viaggi in treno. Estenuati dalla stupidità delle notizie e dalla loro ripetitività convertiremo i televisori a ricettori di streaming via Internet di movie, documentari e serial provenienti da tutto il mondo, ad esclusione dei nostrani nostalgici, moralisti e rompicoglioni. Un coro di corifei della saggezza e dell’intelletto sta latrando sotto le finestre dei decisori Rai a favore del Saviano partenopeo ripetendone le qualità visto che sarebbe ben altra cosa rispetto a Facci. Come ha detto la presidentessa, non sono la stessa cosa. In effetti le palpebre cadono sonnolente sotto il mantra ripetitivo di trent’anni di gomorrea, di savianesco copiaincolla, di famme campà di ritagli di notizie locali dove folklore, napoletanità e cammuria si confondono. Il viso sempre più cupo, le occhiaie più pesanti anche per le ripercussioni, ricordate da Zalone, della condanna al rifiuto della fica e di altri amorosi sensi impostigli dalla camurria nel regno delle due sicilie. Solo s’illumina nell’insulto, nella cafonata plaudita dalla sua fazione nel dare della bastarda alla premier, del ministro della malavita a Salvini che paradossalmente a sua insaputa finisce per trovarsi sullo stesso scranno di Giolitti. Toccare il Saviano, con le sue battaglie identitarie per le Carole, per lo speronamento delle navi delle capitanerie, però è un delitto di lesa maestà, anzi di lesa antimafia, per cui bisogna sorbirselo come una purga amara.
Il Facci è un’altra cosa, vero. Provvisto di prosa fine e caustica, di ingegno provato alla clandestinità fin dalla giovinezza, avendo rappresentato la pagina cancellata delle vittime di Mani Pulite, del massimo simbolo del partitismo di un tempo, inviso a sinistre e destre, espulso fin dai dizionari e dai libri di Storia, come il suo riferimento, Craxi, linkato quando era già sconfitto, cacciato, esiliato. Anche in tempi di destre e di omaggi al berlusconismo, sarebbe troppo sconfessare la giustizia, i giornaloni, i media che della distruzione degli intelletti si sono pasciuti. Tanto per cambiare il Facci ha toccato uno dei postulati divini della nostra epoca, scrivendo parole considerate inaccettabili su ragazze che si drogano, si agitano seminude e a loro insaputa si trovano nelle braccia di uno o molti, giovani e vecchi, dopo aver bevuto tra le tante diverse cose anche la nota fiala della strega cattiva. Non scherziamo, ogni cosa munda mundis, le ragazze espongono il culo perché hanno caldo, bevono a dismisura per l’emicrania, fanno viaggi turistici in situazioni scabrose per l’innato senso di apprezzamento del design. Non hanno mai colpa per definizione. Ogni colpa è sempre e comunque del destino cinico, baro e maschio. Non si abbattono le divinità così tanto più se i colpevoli inguaiano i cattivi di destra. Queste sono però tutte storie di una umanità caciarona, tatuata, cafona che malgrado i soldi, è tornata all’ignoranza dialettale.
Tra questa folla che non apprezza lino e cuoio e neanche i pennini Montblanc, terrorizzato, si è aggirato in treno l’ancora affascinante padre dell’editore di Repubblica, in un viaggio alla Stendhal, nell’Italia dell’hic sunt leones, tra i mariuoli delle terre dove i consigli comunali vengono commissariati a raffica. Raccontata l’epica avventura, paragonabile alla transiberiana (visto che non c’è un treno decente nel Belpaese, a parte il Roma Milano) al direttore di Repubblica, costui ne ha chiesto uno snobistico repertorio. Lo snobismo ne è uscito un po’ ammaccato, malgrado le lingue vantate, inglese e francese, per l’errore delle citazioni dei capitoli dei colti volumi in ballo; e si è sviluppato subito un epistolario tra filogotha ed antigotha, tra fan dei vecchi e dei giovani, tra ricordi di bellezze aristocratiche d’altri tempi che, difendendo con mariti e compagni la dignità della camera da letto, confessavano che non c’era madame che non si fosse concessa, franchement, una notte con il padre dell’editore di Repubblica, il che la rendeva inequiparabile a tradimento. I’m easy, si sarebbe cantato un tempo. L’immancabile intervento sindacale giornalistico non è riuscito a rendere seria la questione, tanto più che il comunicato di fuoco non ha potuto fare a meno di ripetere in una riga e mezzo due volte la parola, contenuti. Meglio allora sostituire Saviano e Facci con viaggi in treno sospirosi come i ricordi da tombeur. Sarebbe una rubrica da Barbie (o Barbio), appena giunta al cinema. Barbie, accusata di fascismo da ragazze tutt’altro che wasp, viene sostenuta quando perde il potere in favore di un Ken trumpiano. Recuperata la leadership, le latinos e mulatte si tengono stretto lo sciovinismo già contestato, mentre la biondissima diventa umana e incontra per la prima volta il ginecologo. L’eroina in fondo è Ruth Handler, l’inventrice di Barbie, nota evasora fiscale. Tutto è fascismo quel che finisce fascismo, come ci spiega Repubblica.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.