Finalmente in Italia si è riaperto un dibattito ampio e serio su cosa significhi e quale valore abbia essere “conservatore”.
A prescindere dalle preferenze e dagli orientamenti, le voci autorevoli che stanno intervenendo concordano nel liberare il termine dal pregiudizio negativo che quasi solo in Italia grava su di esso.
Questo sdoganamento è anche effetto della distanza tra quanto la attuale premier diceva quando era alla opposizione del governo Draghi e poi durante la campagna elettorale ed alcune delle cose che sta facendo da quando è entrata in carica.
Conservatore è colui che della tradizione salva qualcosa come condizione per poter cambiare qualcos’altro. Il conservatore si distingue nettamente tanto dal reazionario, che del passato vorrebbe conservare o recuperare tutto, quanto dal progressista, che del passato e del presente pretenderebbe di cambiare tutto (progressismo che nella cancel culture ha trovato un’etichetta perfetta e nella segretaria del Pd, Elly Schlein una testimonial efficace per il mercato politico italiano).
Anche se sembra un paradosso, e non lo è affatto, il conservatore conserva qualcosa per poter innovare qualcos’altro e l’innovatore, per poter effettivamente cambiare qualcosa, si appoggia su qualcos’altro che invece viene conservato. Un esempio ce lo ha fornito la scorsa settimana Mario Draghi intervenendo in materia di riformulazione di una parte delle regole Ue: con chiarezza ha indicato cosa conservare e cosa ed in quale direzione innovare. Del resto, sarà un caso che quasi tutti i più grandi innovatori politici del Novecento europeo erano dei conservatori? Si pensi a Churchill e De Gaulle, e per tanti versi anche a De Gasperi, Adenauer e Schuman.
Conservatori (veri) e riformisti (veri) hanno in comune più di quanto li divide dai reazionari e dai progressisti (tra di loro più simili di quanto si creda, come abbiamo dovuto sperimentare con il governo giallo-verde).
La democrazia funziona bene quando i conservatori (o, se si preferisce, i riformisti) raccolgono molto più consenso della somma del consenso raccolto da reazionari e progressisti. Perché molto? Perché a questa condizione la democrazia è competizione tra conservatori (o, se si preferisce, riformisti) di segno diverso (di destra e di sinistra) che allora non hanno bisogno di allearsi né con i reazionari né con i progressisti.
Il conservatore (o riformista) dice con chiarezza cosa vuol conservare e cosa cambiare. La conseguenza è che due fronti diversamente conservatori (o diversamente riformisti) possono sfidarsi sulla base di due agende diverse in ciascuna delle quali è indicato cosa che si vuol conservare e cosa che si vuol innovare. Da queste agende e non da dichiarazioni di principio si comprende chi sia conservatore (o riformista) di destra e chi conservatore (o riformista) di sinistra.
C’è da sperare che il dibattito che si è appena aperto prosegua. La nostra politica e la nostra cultura politica ne guadagnerebbero assai. Intanto il confronto è già servito anche ad accendere i riflettori su due nodi schiettamente politici. Primo: avviandosi alla campagna elettorale per le europee il governo e la sua maggioranza sapranno resistere alle sirene di una destra non conservatrice, ma reazionaria? E, secondo: si colmerà mai la assenza dalla scena politica italiana dei conservatori (o riformisti) di sinistra? Questa assenza azzoppa la nostra democrazia. Chissà se qualcuno intorno alla onorevole Schlein sa che persino Berlinguer, citando uno scritto di Benedetto Croce del 1943, verso la fine degli anni ’70 definì il Pci un partito “conservatore e rivoluzionario”? (Rivoluzionario che nel contesto era sinonimo di riformista.) O forse è pretendere troppo dai cantori italiani della cancel culture?
Luca Diotallevi (Il Messaggero)
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