L’informazione fa spesso un effetto da shock anafilattico. Rampini aveva appena finito di raccontare (La speranza africana) l’Africa come area del mondo che in parte già è polo produttivo, brillante riferimento culturale, snodo strategico per gli equilibri politico-militari. E subito i risultati della conferenza dell’Arab Center di Washington offrono un quadro fosco raccontando di Medio Oriente e Nord Africa peggiorati per sanità, acqua, cibo, diritti umani e libertà fondamentali. Tutti sono d’accordo sui record demografici africani. La popolazione cresce più che in ogni altra parte del mondo; è la più giovane ed è quella che si sta urbanizzando più rapidamente. L’Africa ha ca. 1,5 miliardi di abitanti, il doppio dell’Europa. Il tasso di natalità sta però vistosamente diminuendo soprattutto nella parte nera del Continente. In Nigeria, in Senegal, in Ghana, nel Mali, nel Maghreb e in Sudafrica il tasso di fertilità per donna è sceso da 5,8 a 4,6 figli. I progressi della globalizzazione tra 2000 e 2014 diminuirono la mortalità infantile, aumentando la pressione demografica e migratoria sono stati sostituiti dall’attuale stagnazione. Secondo Rampini non ci sarà alcuna bomba demografica.
La distanza economica resta mostruosa. Il Pil pro capite dell’Africa nera secondo la Banca Mondiale è di 3.757 dollari, quello dell’area euro di 47.785. Dopo il 1990 i tassi di crescita del Pil africano, della sola Africa Centro-Occidentale, del Medio Oriente e del Nordafrica furono superiori a quelli italiani. Dal 2014 invece il Pil di Africa subsahariana e Africa Centro-Occidentale è calato del 2,3% e del 2%, mentre in Medio Oriente e Nordafrica è cresciuto del 6,7 %, meno del 9,7 % italiano e del 10,9% dell’Eurozona. Il 50 % della popolazione dell’Africa nera detiene solo il 9 % del reddito (in Europa occidentale il 20%). La disuguaglianza è cresciuta più in Nordafrica per le guerre civili a Sud del Sahara (World Inequality Database). Non è che l’Occidente non sia intervenuto. Ricorda Rampini, dal 1960 al 2010 l’Africa ha ricevuto al netto dell’inflazione, 20 volte le somme del mitico Piano Marshall. Inutilmente. Le somme hanno creato dipendenza, deresponsabilizzazione delle classi dirigenti locali. Tra il 1970 e il 1988, gli aiuti americani ed europei raggiunsero il massimo livello, eppure la povertà salì dall’11 al 66% della popolazione. Non c’è dubbio che le rimesse dei migranti, che già dal 2010 hanno sorpassato l’ammontare degli aiuti umanitari, siano più efficaci.
Dato di fatto, l’Africa può contare su diversificate risorse naturali (gas, petrolio, terreni fertili, minerali e terre rare) e su un mercato di consumatori in espansione. È una terra dalle cinquanta sfumature di grigio. L’esempio migliore di sviluppo cui si è rivolta negli ultimi 15 anni è stato quello asiatico, senza l’illusione miracolosa di colmare gap profondi grazie alla globalizzazione. Ora l’effetto delle grandi imprese di Stato e di un milione di piccoli imprenditori cinesi si è frenato per i problemi interni di Pechino e si fanno avanti Russia, India, Arabia Saudita ed Emirati. L’Africa non è solo povertà, malnutrizione e malattie; è però un Continente a deficit di pace, ordine e stabilità. Servizi pubblici e infrastrutture sono minati da guerre e conflitti con il suo corollario di milioni di rifugiati e sfollati interni. Gli occidentali inseguono però i loro miti, diritti umani, ecologia e la critica devastante fatta alle nostre imprese da magistratura, ong, ambientalisti. Un processo alle intenzioni, sottolinea Rampini, che ha facilitato l’attuale debolezza occidentale in Africa. Meglio l’intervento privato che le risorse pubbliche bruciate da autocrati africani inefficienti. Girando per Egitto, Etiopia, Sudafrica, Rampini tocca con mano i danni dell’ambientalismo utopico, superato dall’evidenza empirica. Il Continente non è perduto per il cambiamento climatico dei disastri naturali ed è impensabile chiedere ai Paesi africani di abbandonare qui e ora le energie fossili. La critica a istituzioni sempre meno democratiche, alle leggi repressive, alla riduzione delle libertà del giornalismo investigativo non vede la diffusione dell’estremismo violento islamico. In questo modo il nostro estremismo dei diritti umani diventa una forma di impotenza.
L’Afrocalisse dice, tutto è conseguenza dell’epoca coloniale, la migrazione in massa degli africani in Europa è ineluttabile, l’Africa è della Cina. In realtà il neocolonialismo è ormai una turba politopsicanalitica interiorizzata nelle istituzioni occidentali che giustifica il malgoverno delle élite africane. Le migrazioni sono soprattutto un fatto interno di cui solo una minima parte va all’estero, che può essere controllata. I cinesi, come russi, sauditi o indiani, non hanno di questi problemi e ci rubano sotto il naso contratti. Il nuovo protagonismo africano dell’Afroeuforia di Davosè in parte verace, come il cinema nigeriano di Nollywoodc con le sue trame di vita ordinaria; in parte indotto dall’apertura del nostro mercato verso stilisti, scrittori, artisti, afrobeat tanto orientati da sfumare i propri valori africani distanti dai nostri.
L’Europa dovrebbe smettere di guardare all’Africa come ad un’apocalisse e trattarla per quella che e è e che può diventare come partner, partendo dai fondamentali possibili.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.